venerdì 31 dicembre 2010

E che ultimo dell'anno sia!

Sta per terminare questo 2010.
Un anno faticoso, per certi versi brutto. Ogni mese ha riservato sorprese, spesso non gradite, tanto da farmi desiderare di vederlo finire il più presto possibile. Eppure c'è stato ugualmente qualcosa di bello e, potendo riavvolgere il nastro del 2010, scoprire qualcosa da fermare, da fotografare, da salvare.
Tempo fa, parlando con una persona di tempi trascorsi, ma trascorsi da tanto tempo, dissi che tante cose brutte le avevo come rimosse dalla mia mente, conservando solo le cose belle. Il 2010 ha invertito questa tendenza, le cose negative non credo di poterle dimenticare, mentre devo concentrarmi, e non poco, per andare a riscoprire le cose belle, che se ne stanno rintanate da qualche parte.
E da lì ripartire per infrangere la barriera del 2011 con slancio, con la speranza che l'anno nuovo sia migliore del precedente.
Ed è con questo augurio che vi saluto: se il 2010 è stato brutto, che il 2011 sia bello, e se il 2010 è stato bello, che il 2011 sia ancor più bello!

Auguri, amiche e amici del Rifugio, al prossimo anno!

mercoledì 29 dicembre 2010

domenica 26 dicembre 2010

Corsi e ricorsi

Piove, tira un forte vento, non penso proprio di uscire.
Allora perché non scrivere qualcosa? Scrivere, ad esempio, dell’ultima pazzia dalla quale mi sono lasciato insidiare.
A volte ci sono dei ricorsi che, a distanza di anni, fanno ripercorrere strade già percorse.
Questo ho pensato quando accettai, circa due mesi fa, di andare a fare le prove per cantare ad una festa che si sarebbe tenuta, sentite un po’, il 17 dicembre, venerdì.
Le prove terminarono, ma il tempo quella sera fu inclemente ed una grande nevicata vanificò ogni sforzo: la festa fu annullata.
Ormai pensavo che un tale debutto non avrebbe più avuto luogo, ma, in tutta fretta, un’altra data fu trovata, cinque giorni più tardi, il 22 dicembre.
Non posso negare di aver provato quella che io chiamo una sana tensione, quella che precede gli eventi. Ma ci pensate? Cantare, per la prima volta, alla mia età, davanti ad un centinaio di persone (centosessanta, ho saputo successivamente), un terreno sul quale, decisamente, non sono abituato a camminare.
Ma il feeling che si era instaurato fra noi musicanti e la presenza di molte persone conosciute mi ha convinto che, in fondo, avrei giocato in casa e anche qualche stecca, nel caso, sarebbe stata perdonata.
Mi sono divertito davvero, liberando quella voglia di giocare che anima il fanciullo che è dentro di me e quella voglia di mettermi in gioco, andando a cercare nuove e sane emozioni, rischiando anche un po’.
Venticinque anni fa, sotto la naia, suonai per la prima volta la batteria, senza averla mai suonata prima.
A distanza di anni mi sono lasciato tentare di nuovo dalla musica e, per la prima volta, mi sono trovato a cantare. Il risultato qui non ha importanza: quello che conta è che sono riuscito ancora a sorprendermi.

Quattro passi... con Ben - Ventitreesima puntata

Sabrina era un lontano ricordo, non ci vedevamo più nemmeno all’ingresso della scuola. Con gli ex-compagni della prima “F” non c’era più nessun contatto. Era un po’ triste tutto questo, ma era altrettanto reale; Sabrina e Raffaella erano diventate, secondo quello che mi era stato riferito, inseparabili. Andrea aveva cambiato scuola e, dopo essere stato respinto, aveva iniziato un corso per analisti chimici; oggi è un affermato fisioterapista. Vedevo e parlavo solo con Maria Grazia ed Elena, perché all’uscita della scuola dovevamo prendere lo stesso autobus per tornare a casa. Con Maria Grazia non c’era un grande dialogo, mentre con Elena ancora scambiavamo alcune parole. Certo lei ora cominciava ad essere molto grande nei miei confronti, in tutti i sensi, per personalità, carattere e… altezza. Io ed Elena preferivamo prendere l’autobus che andava a Badia a Pacciana piuttosto che quello per Agliana. Facevano lo stesso tragitto fino a Nespolo. Per lei non cambiava nulla, scendeva alla stessa fermata; per me significava scendere alcune fermate prima di quella più vicina a casa, ma ciò non mi creava nessun disturbo. Su quell’autobus c’era meno gente e questo ci permetteva di non fare a gomitate e di avere quasi sempre un posto a sedere per parlare in santa pace. Inoltre, dopo essere scesi, camminando verso casa, terminavamo gli ultimi discorsi, prima di ricominciare il giorno successivo.
Elena era sempre stata per me una persona particolare, speciale in un certo senso, fin dai tempi delle elementari. Mi rendevo conto, però, che le sue attenzioni stavano andando verso altri ragazzi, più grandi, più maturi. Stava crescendo e mi dovetti rassegnare a perderla. Io, al suo confronto, ero ancora un bambino. La sua amicizia mi sarebbe mancata in seguito.

lunedì 20 dicembre 2010

A volte si dice...

Ho preso un'agendina, aperta ad un giorno qualunque, per annotare alcuni indirizzi di posta elettronica.
Poi ho fatto la spunta per vedere se li avevo messi tutti in un messaggio da inviare.
Quando ho terminato, ho letto la frase scritta sotta la data, 26 ottobre 2010, S. Evaristo, martedì:

Una stanza senza libri è come un corpo senz'anima.
(Cicerone)

Non so per quale associazione di idee mi è tornato in mente quanto scritto alcuni post fa, legato alla scrittura, un'amica che non vedo da un po'. E questo, a cascata, mi ha rimandato alla lettura, altra amica che frequento poco ultimamente.
La parola "senza", ripetuta due volte, mi ha dato un senso di vuoto, e ho pensato che il vuoto non mi piace.
E poi, io, all'anima ci tengo.
Certo che la mente talvolta lavora proprio in modo strano!
Casualità?
E mi sono guardato nuovamente dentro.

domenica 19 dicembre 2010

Quattro passi... con Ben - Ventiduesima puntata

Mirella era simpaticissima, aveva una grande vitalità, che trasmetteva anche a chi la circondava, ed una intelligenza fuori dal comune. Era una persona molto bella dentro. Divenne l’amica del sabato pomeriggio, compagna di passeggiate nel centro della città.
Organizzammo anche una festa a casa sua. Lei abitava in città, in una casa molto vecchia dalle stanze enormi. In quel salone ampio e scuro, ci attrezzammo per ascoltare i dischi e per ballare. Quel pomeriggio volò via in un batter d’occhio e quelle occasioni si facevano sempre più rare. Il tempo mi sfuggiva, l’anno scolastico stava trascorrendo troppo in fretta. Forse cominciavo ad aver paura di cambiare scuola perché mi piaceva restare lì, con quei compagni. Ma, allo stesso tempo, ero troppo orgoglioso, non volevo ritornare sulle decisioni prese e quindi dovevo andare avanti ad ogni costo. Con il Saimon, cioè Stefano, così era soprannominato, ci saremmo visti, rigorosamente di sabato, negli anni successivi. Con Lorenzo, simpatizzante di Lotta Continua ed ottimo nuotatore, saremmo andati in discoteca insieme, poche volte per la verità, alcuni anni dopo. Oggi lavora in banca: cosa curiosa davvero per uno (ex?) di Lotta Continua.
Fra gli altri, un tipo curioso era sicuramente Nicola. Aveva uno stile tutto suo, sembrava quasi un Lord inglese di una volta, con quel suo portamento ed il suo modo di parlare.
Poi c’era Mario, amante dei cavalli. Ad una festa a casa di Cristina, per Carnevale, conobbi sua sorella, Monica, molto carina. Con lei ballai spesso quel giorno.
Non era mascherata, mentre io avevo un costume da giocatore di football americano. Mia madre era stata determinante per la sua riuscita: lo aveva cucito, aveva ricamato le scritte e attaccato i numeri sulla maglia. Poi una calzamaglia attillata, un paio di scarpette, calzini alti e tanta gommapiuma per riempire le spalle ed il petto. Sembravo l’omino Michelin.
Dopo aver trascorso la festa in casa, uscimmo e cominciammo ad andare per le strade del quartiere, alla Vergine, tirando coriandoli e stelle filanti. 
Rividi Monica solo una volta, una sera d’estate in cui, al circolo del Nespolo, mettevo i dischi per una sfilata di moda. Niente di importante, ma per il paese fu una cosa fuori dal comune.
Non riuscii a parlarci, a causa di quel mio impegno. La salutai con la mano e lei ricambiò il saluto. Avrei voluto parlarle, ma anche quella, ahimè, fu un’altra occasione perduta.
Intanto con Riccardo, nel nostro perpetuo rapporto di avvicinarsi per poi allontanarsi di nuovo, prendemmo la decisione di invertire i nostri posti. Lui era entrato più in sintonia con Cristina, perché erano due mattacchioni che amavamo ridere e sparare battute a ripetizione, non prendevano e non si prendevano sul serio. Io ero entrato più in sintonia con Martina, anche lei molto simpatica, ma un po’ più seria (mica tanto) di Cristina. Oserei dire che era più riflessiva, prima di dire una bischerata, ma alla fine la diceva ugualmente.
Cominciò per me una nuova avventura. Martina era una compagna ideale e non avendo problemi sentimentali con lei, ero sciolto come non mai, parlavo di tutto senza nessun tipo di problema o di timore. Lei faceva altrettanto con me. Ad esempio il lunedì era il giorno del rapporto del fine settimana, quindi ci raccontavamo tutto ciò che avevamo fatto il sabato e la domenica. Lei stava insieme ad un ragazzo di quarta “B” ed ogni lunedì mi raccontava delle loro prodezze in discoteca, il Milleluci di Casalguidi. Ogni domenica timbrava il cartellino in quel locale ed ogni domenica si divertiva più della precedente. Ed io? Che cosa potevo raccontare delle mie domeniche? Il sabato uscivo ed andavo in centro, dove incontravo Mirella ed il Saimon, ma la domenica era spesso un giorno da dimenticare: la mattina studiavo, poi, dopo pranzo, andavo ad aiutare mio padre al circolo, dove faceva il barista. Quando avevo finito con il bar, gli altri ragazzi erano già partiti per raggiungere chi la discoteca, chi il cinema, chi altra gente chissà dove. Così mi ritrovavo ad ascoltare “Tutto il calcio minuto per minuto” alla radio e, successivamente, a guardare in televisione tutte le trasmissioni sportive. Nel mezzo magari un ripassino di storia o matematica. Ricordo tutti gli orari di quelle domeniche piene di noia e di solitudine. Nessun amico per passare il pomeriggio insieme e per uscire. Fuori dalla scuola continuavo ad essere una frana. La domenica scorreva e non vedevo l’ora di arrivare a tarda sera per andare a dormire e risvegliarmi il lunedì per andare a scuola, il solo posto dove riuscivo ad esprimermi. A Martina talvolta dicevo questo, e talvolta inventavo che ero andato in qualche posto; spesso dicevo che ero andato in centro, anche se non era vero, perché la città, si sa, è dispersiva ed è possibile non vedere una persona anche se c’è; figuriamoci se non c’è!
Inoltre aggiungevo: “... ma non ho incontrato nessuno che conoscevo.”
Non avevo visto nessuno e nessuno aveva visto me.
E come avrebbero potuto?

venerdì 17 dicembre 2010

Nevica

Ed è un disastro!
Ma una volta passati il disagio e l'apprensione, la neve riesce sempre a farci giocare di fantasia.

Che dite, mi assomiglia un po'?

domenica 12 dicembre 2010

Luci

Le giornate sono molto brevi.
Per la strada, al ritorno dal lavoro, la sera, non puoi fare a meno di guardare le piccole luci che si affacciano ai tanti balconi. Le più temerararie osano afforntare il vento, sfidandolo in una danza che dura per ore.
I negozi sono illuminati, come le strade, alcune delle quali sono un po' timide.
Annusi l'aria della festa.
Ti sei sorpreso a guardare l'albero di Natale. Fissavi le lampadine colorate, preferendo il momento in cui la luce passa lentamente da una all'altra, quasi a formare un'onda, prima di riprendere con un ritmo da balera.
È notte e, proprio nel momento in cui le luci possono dare il meglio di sé, alcune si spengono, mentre altre resistereanno fino all'alba, quando il sole dominerà su tutte loro.
Poi tutto riprenderà, per un po' di tempo, fino a scomparire nell'oblio per un intero anno, prima di ricominciare tutto daccapo, nella speranza che una luce, una soltanto, riesca a penetrarti e a illuminarti dentro.

E sarà Natale.   

domenica 5 dicembre 2010

Quattro passi... con Ben - Ventunesima puntata

Ero in seconda “B”.
Cominciai a cercarla, poi la trovai: era molto lontana dall’ingresso della scuola.
Entrai in aula, i banchi erano disposti in modo molto originale in confronto a quello che ero abituato a vedere: tre file orizzontali, separate in mezzo da un piccolo corridoio, giusto solo per passarci. Mi sedetti alla sinistra, quasi al centro. Rimanevano due posti alla mia sinistra, dalla parte della finestra, ed uno alla mia destra, dalla parte del piccolo corridoio. Il resto era tutto sulla destra, dal lato dell’entrata. La cattedra era frontale. Una fila davanti a me, una dietro.
Riccardo sedette alla mia destra. Alla sinistra arrivarono Martina e Cristina. Davanti avevo Stefano e Lorenzo. Dietro c’erano Vincenzo e un altro ragazzo di nome Roberto. Sandra e Paola erano lontane, troppo lontane, accanto avevano Mirella e Rita, Davanti a loro c’era Patrizia, con la quale erano andate a scuola insieme alle elementari ed un’altra ragazza, Patrizia anche lei di nome, che aveva l’aspetto di un maschietto, per quel suo modo di vestirsi.
Mi ritrovai in mezzo a compagni tutti nuovi quindi, e per me, timido ed introverso, non era certo la cosa più facile da affrontare. Sarebbe stato meglio avere vicino qualcuno che già conoscevo. Ormai era andata così. I professori erano tutti nuovi.
Notai subito una notevole allegria, sia nei compagni, sia nei professori. Quella classe mi piaceva, sembrava molto più unita rispetto alla prima ed in poco tempo riuscii ad inserirmi a meraviglia. Mi sentivo come se ci fossi sempre stato, i nuovi compagni mi accolsero favorevolmente e ben presto diventai punto di riferimento per la classe.
Ogni tanto sentivo una fitta al cuore, per l’assenza di Sabrina, ma considerato che quando ci incontravamo fuori dalla scuola non sembrava così contenta di vedermi, per lo meno non tanto quanto lo ero io, finii col convincermi che era meglio non sprecare ulteriore tempo dietro a lei e, mio malgrado, decisi di guardare avanti e non in dietro, di dimenticarmi quello che avevo provato per lei, tristemente non ricambiato.
Adesso c’era un mucchio di ragazzi nuovi da conoscere, che sembravano molto simpatici.

sabato 27 novembre 2010

Quattro passi... con Ben - Ventesima puntata

La mattina successiva mi alzai, presi la mia bicicletta ed andai al Pacini.
Mi recai in segreteria, e lì incontrai la professoressa Bellandi.
“Ecco Roberto. Ciao, come stai? E le vacanze?” mi salutò.
“Bene, grazie. Ma, professoressa, che cosa succede?” domandai.
Mi spiegò la cosa ed aggiunse, rispetto a quel che già avevo saputo dalla telefonata del giorno precedente: “Dobbiamo formare due gruppi equilibrati. Uno andrà in seconda “B” ed uno in seconda “E”. Tu e Sabrina sarete, se così possiamo dire, i due capo-gruppo.”
Non feci in tempo a replicare che subito lei, come se mi avesse letto nel pensiero, aggiunse:
“So quello che pensi, dispiace anche a me, ma non ci sono alternative.”
“Vedremo. Aspettiamo che arrivi Sabrina e poi ne riparliamo in riunione” dissi in tono di sfida, con l’atteggiamento di chi non accetta un ruolo passivo nei confronti di un’ingiustizia stabilita a tavolino.
“Non ci sarà Sabrina. È all’Elba e non è potuta rientrare in tempo. Ci sarà sua madre.” E mentre mi rispondeva in questo modo, mi mise una mano sulla spalla, come se volesse consolarmi.
Fu una mazzata tremenda. Gli unici a sapere che non sarebbero andati nella stessa classe eravamo io e lei. Ed in qualche modo avremmo dovuto scegliere i futuri compagni di classe. Sarebbe stato difficile.
Nel frattempo erano arrivati anche altri compagni e la riunione iniziò.
La professoressa iniziò salutandoci e rammaricandosi per il fatto che solo pochi erano stati rintracciati e ancora meno si erano presentati.
Ricordo solo pochi volti di quelli presenti: la madre di Sabrina, Elena, Maria Grazia, Sandra, Paola, Riccardo. Ero come in trance a causa della rabbia che avevo dentro.
Appoggiati a quel tavolo enorme ascoltavamo la parole della professoressa mentre illustrava le ragioni di questa divisione.
Il criterio di scelta sarebbe stato quello di formare due gruppi omogenei sotto il profilo del rendimento e, possibilmente, mantenere uniti coloro che da tanti anni erano insieme.
Non andò proprio in questo modo. Infatti la madre di Sabrina fece di tutto (o per lo meno questo sembrò a me) per imporre alcuni compagni nel gruppo di sua figlia, soprattutto in riferimento ai figli della così detta Pistoia Bene. E così ottenne che figli o figlie di dottori e vivaisti, oltre naturalmente ai compagni suggeriti da Sabrina stessa, finissero nel suo gruppo. Elena e Maria Grazia, con le quali eravamo insieme dalle elementari, finirono nel gruppo di Sabrina.
Con me vennero Riccardo, Sandra e Paola, che erano contentissime, Gianluca, Gigi, Giacomo ed il Moro.
Ricordo ancora il volto triste di Elena, lì ferma al mio fianco, con le mani che tenevano il mio braccio, come in un ultimo tentativo di aggrapparsi per restare in classe insieme a me. Mi tornò in mente il suo volto del giorno in cui le avevamo rovinato la festa a casa sua. Aveva la stessa espressione di tristezza e delusione.
Il destino di quell’anno era stato deciso, senza che io avessi potuto fare niente di diverso. Avevo subito quella situazione senza poter decidere una virgola; tutto sembrava stabilito già da prima. Ogni mio desiderio, ogni mia opinione o richiesta non fu presa in considerazione. Anzi no, solo una: Riccardo rimase con me (“Siamo insieme fin dai tempi dell’asilo!”).
Ma il fatto di voler rimanere ancora insieme, forse, fu soltanto frutto dell'abitudine.

lunedì 22 novembre 2010

Scrivere? Non scrivere?

Mi sembra passato un secolo dall'uscita del Treno delle 7,18, eppure era poco più di un anno fa.
In questo periodo, lo scorso anno, ero pieno di entusiasmo per dare risalto alle iniziative e promuovere il libro. Una gran bella corsa, poiché le esperienze precedenti mi avevano insegnato che tutto si giocava in poco tempo, un periodo breve, ma bruciante. E così è stato.
Da un anno a questa parte, però, sono cambiate alcune cose, ho fatto altre esperienze che mi hanno portato a contatto diretto con molta gente, ed ho scoperto che questo contatto mi piace molto e dà sensazioni ben diverse dai medesimi obiettivi che cercavo di raggiungere con la scrittura. Quell'urgenza (per usare un termine molto gradito agli addetti ai lavori) che prima cercavo di esprimere con le parole, sulla carta, adesso cerco di esprimerla diversamente.
Da tempo avevo un'idea nel cassetto che ho cominciato a sviluppare da poco, ma mi sono subito reso conto che gli stimoli sono diversi.
Sto scrivendo questo di getto, d'istinto, cosa per me inusuale, e già questo la dice lunga. Ma adesso mi va così. Non sono abituato a mollare, perché quando inizio una cosa mi piace portarla a termine, mi piace ancora scrivere, ma allo stato attuale delle cose non mi stupirei se il treno fosse veramente arrivato all'ultima fermata.   

domenica 21 novembre 2010

Quattro passi... con Ben - Diciannovesima puntata

L’anno che stava per iniziare sarebbe stato l’ultimo trascorso nella scuola di Pistoia. Il biennio, per me, era un passaggio obbligato per proseguire gli studi a Firenze con l’indirizzo per Programmatori.
A questo pensavo una mattina, alla fine dell’estate, disteso nel letto mentre ascoltavo alla radio una canzone degli Eagles, una delle mie preferite.
Saranno state circa le nove, quando il telefono suonò improvvisamente.
Controvoglia mi alzai per andare a rispondere.
“Chi sarà mai a quest’ora?” pensai scendendo le scale.
“Pronto?”
“Buongiorno, sono della segreteria dell’Istituto Pacini di Pistoia. Vorrei parlare con l’alunno Roberto Benassai. È in casa?” chiese una voce femminile con modi molti gentili.
“Sono io. Dica pure.”
“Buongiorno Roberto. Chiamo per avvertirti che domani mattina alle ore 10 dovresti venire in Istituto per una riunione molto importante.”
“Riunione? Ma di che cosa si tratta?”
“Vedi. I risultati della prima “F” non sono stati brillanti, come sai. I promossi sono stati troppo pochi per formare una seconda classe. Pertanto la seconda “F” non sarà formata. Dobbiamo suddividere la classe in due parti e smistarle in due sezioni diverse. Ci spiace, ma non abbiamo alternative. Avvertiremo anche altri alunni, tutti quelli che riusciamo a rintracciare, e alcuni professori in rappresentanza di tutti gli altri. Possiamo contare sulla tua presenza?”
“Sì” risposi. “Dove devo presentarmi?”
“In segreteria. Ci sarà la Professoressa Bellandi ad accogliervi” rispose.
Per tutto il giorno pensai a cosa sarebbe successo a quella riunione, in quale sezione saremmo stati messi, e soprattutto con quali compagni sarei andato a finire. E Sabrina, sarei riuscito ad essere di nuovo con lei? Non volli tormentarmi oltre con altre domande. Quello sarebbe stato comunque l’ultimo anno al Pacini, per cui non era il caso di prendersela tanto a cuore.
Questo pensavo, ma non ci credevo. Non rientrava nel mio carattere postergare le cose ed accettarle così come vengono.
Aspettai con ansia l’indomani, soprattutto per rivedere Sabrina, con alcuni giorni di anticipo rispetto all’inizio dell’anno scolastico.

domenica 14 novembre 2010

Una domenica diversa

Oggi erano tanti, tutti insieme, e tu, con attenzione, li hai guardati: i loro movimenti, i loro tic, le loro parole, le loro risate celate dal rapido gesto di una mano portata alla bocca, i loro discorsi, i loro ricordi. Il pranzo sta per finire e una signora ti viene incontro, in compagnia del suo bastone. Subito ti chiede scusa, il suo timore è quello di disturbare con la domanda che sta per fare.
"Dopo fate la tombola?"
"No, signora, solo il pranzo" e ti dispiace quasi doverle rispondere così.
"Grazie. Fra poco telefonerò a mio figlio, così viene a prendermi."
Torna al suo tavolo e riprende da dove aveva lasciato.
Per un attimo provi a immaginare che tutto intorno a te si faccia silenzio e guardi i loro volti: tutto sembra rallentato, ma non la loro gioia di vivere.
All'uscita ritrovi quella signora su una panchina, al riparo dalla pioggia, che sta ancora aspettando, ma non sembra avere fretta. La saluti e lei ti risaluta.
Chissà cosa sta pensando.

venerdì 12 novembre 2010

Quattro passi... con Ben - Diciottesima puntata

I risultati che stavo ottenendo erano eccellenti, ma avevo sempre la sensazione che mi mancasse qualcosa. Fuori dalla scuola non riuscivo a esprimermi. Riuscivo a parlare solo con i compagni di classe, mentre con altri ragazzi, come ad esempio quelli del paese, non sapevo proprio cosa dire e questo mi nuoceva molto, perché molte volte venivo evitato di proposito. La mia timidezza invece di diminuire, stava aumentando. Persino mio fratello non mi voleva più fra i piedi quando era con i suoi amici, i soliti con cui ci vedevamo l’estate precedente.
Insomma, mi trovavo in difficoltà, ma non riuscivo a parlare con nessuno di questo mio disagio. Mi rinchiusi in me stesso e tirai avanti. “Più forte di tutto e di tutti” mi ripetevo quando ero in crisi.
Dal di fuori nessuno si accorgeva di questo mio stato d’animo, perché per gli altri io ero uno freddo, uno calmo che non perdeva mai il controllo della situazione, uno privo di debolezze.
Non mi aprii con nessuno. Forse sarebbe stato più facile parlarne, ma non lo feci. E questo aspetto del carattere di non aprirmi completamente mi è rimasto. È molto più facile ascoltare gli altri, parlare dei loro problemi, piuttosto che parlare dei miei.
L’anno scolastico volse al termine e decidemmo con la classe di fare il pranzo di fine anno. Avevamo scelto il posto, ma io non finii l’anno insieme agli altri perché una brutta influenza mi costrinse a letto durante gli ultimi giorni. E così non mi rimase altro che immaginare quale sarebbe stato il divertimento dell’ultimo giorno di scuola, i saluti, gli abbracci e i baci, gli auguri per una buona vacanza e gli arrivederci a settembre.
Stavo pensando a queste cose disteso nel letto, con la radio accesa sul comodino, quando sentii il rumore di un motorino. Erano circa le quattro del pomeriggio e mia madre mi chiamò dal fondo delle scale.
“Roberto, scendi, c’è qualcuno che ti vuole.”
Pensai che fosse Riccardo che si era fermato ritornando a casa dal pranzo.
Infatti era lui.
“Affacciati” mi disse.
Io, in pigiama e ciabatte, mi affacciai alla porta che dà sull’aia e con enorme sorpresa mi trovai davanti tutti i miei compagni di classe.
“Non potevamo andare in vacanza senza salutarti” disse Sabrina a nome di tutti.
Parlammo per alcuni minuti di come erano andati l’ultimo giorno di scuola ed il pranzo, poi tutti loro ripresero i loro motorini e, dopo un ultimo saluto, ripartirono.
Quella visita inaspettata mi fece enorme piacere, ma rafforzò in me la sensazione che quello era stato l’anno delle occasioni perdute: Sabrina già impegnata, poi la gita a Pompei, per la quale non ricevetti il permesso dei miei genitori, ed infine il pranzo di fine anno, costretto a letto dall’influenza.
I risultati furono ottimi, fui il primo della classe. Per il resto non c’era niente di cui rallegrarsi.

lunedì 8 novembre 2010

Non sono solo canzonette

Ultimamente non ascolto più la musica come facevo un po' di tempo fa.
In uno dei precedenti post ho scritto che mi trovo spesso a riflettere su un sacco di cose, e anche la musica rientra fra quelle. Così mi ritrovo ad ascoltare brani come se fosse la prima volta, sottolineando, nella mia mente, alcune parti dei testi che, improvvisamente, assumono un senso.
In auto tengo da anni un CD in cui sono presenti circa 120-130 brani in mp3, che ho ascoltato molte volte con l'intento di rilassarmi e svagarmi durante la guida, e magari cantare qualcosa a squarciagola.
Adesso continuo ugualmente a canticchiare, ma non posso fare a meno di andare a caccia di messaggi e contenuti.
E quelle che un tempo lo erano, adesso non sono più solo canzonette. 
E qui bisognerebbe porsi un'altra domanda.
Però ora basta, Ben! Ma è possibile interrogarsi su tutto?!


domenica 7 novembre 2010

Quattro passi... con Ben - Diciassettesima puntata

I giorni della gita arrivarono e per me e pochi altri furono due giorni di noia, a scuola in tre ad aspettare che suonasse la campanella per andare a casa.
Ebbi modo di conoscere meglio un ragazzo, il Moro, che non avvicinavo mai perché aveva l’aspetto di un mezzo delinquente. Aveva un sacco di problemi: a scuola non andava per niente bene, era ripetente e, secondo quello che si diceva in classe, aveva anche molti e gravi problemi in famiglia. Sembrava sempre addormentato, puzzava continuamente di fumo e credo che ogni tanto si facesse qualche spinello, per dimenticare tutto il resto.
Mi fece un ritratto caratteriale che nemmeno io avrei saputo fare meglio.
Mi stimava e mi invidiava per i risultati che sapevo ottenere a scuola, nelle materie e, a suo dire, con le persone. “Pendono tutti dalle tue labbra” disse. “Ma come fai?”
“Questa è bella! Veramente non credo di far niente. Dico quello che penso, niente di più, ma rispetto tutti e tutto ciò che pensano, anche se è diverso da come la vedo io.”
“Non è solo questo.”
“E cioè?”
“Tu riesci a mettere gli altri a loro agio. Con te si sentono sicuri. Tu sai mettere in risalto chi ti sta vicino!”
“Insomma, gli altri guadagnano dalla mia vicinanza, mentre nessuno vede me. È una bella consolazione!”
“È vero ti dico. Prendi Riccardo… la stessa Sabrina, quando sta con te è un’altra persona.”
“Non me ne parlare, ti prego.”
“D’accordo, come vuoi. Senti un po’, ma come fai tu a essere così bravo in tutte le materie?”
Gli spiegai il mio metodo di studio e lui disse che avrebbe provato a seguire i miei consigli.
Al rientro dalla gita ci furono i soliti momenti di intensa allegria quando, in pochi minuti, si raccontano tutte le cose avvenute.
“Mi sei mancato molto” mi disse Sabrina. “Avrei voluto che ci fossi anche tu.”
“Dispiace molto anche a me” le risposi. Ma non volli riaprire quella ferita, che in qualche modo volevo mettermi alle spalle più velocemente possibile, e così chiusi il discorso.
Per alcuni giorni fui intrattabile, costantemente arrabbiato e nervoso.
Fu proprio il Moro a farmi ritornare il sorriso.
Era giorno di interrogazione di storia. "Vengo io” si offrì lui.
Con molto stupore di tutta la classe, e della professoressa, si stava offrendo volontario.
“D’accordo, vieni tu” rispose la professoressa. L’occasione non bisognava farsela scappare!
Fece un’interrogazione magnifica, impeccabile.
“Vedi che quando vuoi e ti impegni riesci a fare qualcosa di buono?! Otto, puoi andare, e continua così!” lo liquidò la professoressa.
Tornando a posto, il Moro fece una deviazione e venne verso di me.
“Grazie” disse a voce alta. “Te lo avevo detto che con te gli altri fanno sempre un figurone!”
Gli sorrisi e gli detti il cinque con la mano; i compagni non capirono; mi tornò il buon umore.
Il Moro continuò a migliorarsi, e la sua rincorsa lo portò ad essere rimandato a settembre e, successivamente, ad essere promosso.

sabato 6 novembre 2010

Quattro passi... con Ben - Sedicesima puntata

Lei non mi respingeva mai, così iniziammo a cercarci a vicenda e tutti pensavano che fossimo fatti l’uno per l’altra, ma non era così, perché lei stava con un ragazzo che aveva conosciuto al mare, all’Isola d’Elba, dove trascorreva vacanze estive.
Era molto determinata in quella relazione.
“Non puoi stare con quello là, Sabrina” le dicevo ogni tanto. “Non vi vedete mai, che amore è? Il tuo amore è frutto delle vacanze, ti sei innamorata di quei momenti, ma le vacanze sono finite ormai.”
“La lontananza rafforza l’amore” mi rispondeva.
Io non ero d’accordo. Credevo nei rapporti che hanno una continuità e una presenza giornaliera, reale, terrena. Per me era vero il proverbio “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.”
Alcune volte uscimmo insieme, altre ci ritrovammo a casa sua per studiare. Le telefonate fra noi si sprecavano. Eravamo come fidanzati senza esserlo e non sopportavo quella situazione. Lei si mostrava sempre disponibile, ma pensava sempre al suo ragazzo. Secondo Raffaella, che era diventata la sua amica intima, eravamo una coppia perfetta, solo che Sabrina...
“Raffa, non capisco” le chiesi cercando conforto.
“Non le sei indifferente” disse.
“Questo lo so, ma cosa sono per lei? Per me non è solo un’amica, non una come le altre. Io le voglio bene, capisci? E non credo che lei sia innamorata di quell’altro, credo invece che sia innamorata dell’avventura che hanno avuto in vacanza.”
“Ti sbagli, sono due anni che stanno insieme.”
“Ti sbagli, sono due anni che si vedono solo per due settimane. Dai, Raffa, tu ci credi a quel rapporto?”
“Solo il tempo lo dirà se è solido.”
“Il tempo dirà che ho ragione io, ma allora chissà dove saremo!”
“Non te la prendere, anche lei ti vuole bene…”
“Sì, sono un amico, e niente più.”
“Ti pare poco?”
“No, ma non mi basta. Anzi, forse sono solo un rimpiazzo, un tappabuchi fino a quando lei corre da lui, all’Elba!” feci un cenno di stizza.
La mia ultima carta da giocare era quella di uscire allo scoperto e dichiararmi apertamente, per sapere una volta per tutte quali fossero le sue intenzioni, rischiando il tutto per tutto.
Avevo deciso che il momento giusto sarebbe stato in gita, a Pompei e sulla Costa Amalfitana. In assemblea di classe avevamo deciso per quei luoghi, per la durata di due giorni. Volevo giocarmi le mie carte in quell’ambiente fuori dal comune, forse perché l’aria della vacanza influenzava le sue scelte, forse perché dire di no davanti a un panorama marino sarebbe stato più difficile, in un contesto ed in un’atmosfera dagli aspetti irripetibili.
Quando comunicai ai miei genitori che la gita avrebbe avuto la durata di due giorni, ebbi come risposta: “No, non se ne parla nemmeno; due giorni sono troppi e poi non ci sono i soldi per pagare la gita. Ma come vi è venuto in mente di andare laggiù? Non potevate scegliere un posto più vicino e per un solo giorno?”
Ogni tentativo per far cambiare idea ai miei fu inutile.
Ero pieno di rabbia, non riuscivo a smaltirla, ma ero incapace di dare fondo alla mia frustrazione ed aprirmi del tutto. Incassai e mi rinchiusi nella vecchia Horizon, l’auto di mio padre, e ci restai per tutto il pomeriggio. Pensavo e ripensavo a quel “NO” senza darmi pace. Lo sentivo ingiusto, perché non capitava tutti i giorni di andare in gita in posti così belli e così sconosciuti per me. Non uscivo quasi mai, né da solo, né con gli amici, né con i genitori che di domenica lavoravano. Non ero mai andato da nessuna parte se non con la scuola, ed ora dovevo restare a casa.
Ma quello che più mi dispiaceva era di non poter stare due giorni insieme a Sabrina. Quella era la vera cosa irripetibile. Ero convinto che non sarebbe più capitata una simile occasione.
E fu così.

martedì 2 novembre 2010

Quale?

Liberi di amare o liberi per amare?

Non ricordo chi abbia dato una spiegazione al riguardo.
Tuttavia "di" e "per" una differenza possono farla e fanno riflettere.
P.s.: ultimamente tante cose mi fanno riflettere.
Va a finire che mi vengono i pensieri!

lunedì 1 novembre 2010

Una giornata fuori dagli schemi

Desideravo riposare e predermi un po' di tempo per me, per ricaricare un po' le pile.
Oggi, nel rispetto della famiglia, ho vissuto una giornata fuori dagli schemi, come ho scritto nel titolo, che mi ha permesso di dedicarmi a ciò che, invece, le giornate dentro gli schemi non permettono di fare.
Questa mattina ho vissuto un'esperienza che mi ha fatto aprire gli occhi su una realtà che fino ad ora avevo sentito solo rammentare e che adesso vedo da un'altra prospettiva. Al ritorno non ho potuto fare a meno di raccontare tutto in famiglia: fatti e sensazioni.
Nel pomeriggio, dopo un breve riposino, mi sono messo a studiare un po' e adesso, come vedete, mi sto gingillando, in maniera "attiva", sul web.

Tutto questo con calma e tranquillità.
Per oggi, il mondo fuori può attendere.

Otto più uno di Massimo Burioni

Un altro libro ne "Le pagelle di Ben"


Quattro passi... con Ben - Quindicesima puntata

Elena e Maria Grazia ormai erano delle signorine e non mi guardavano quasi più. Parlavamo solo alla fermata dell’autobus e durante il ritorno a casa. I tempi e le persone stavano cambiando. Io intanto mi trovavo molto bene con Paola e soprattutto con Sandra. Paola era sempre disponibile allo scherzo e per uno come me, che ama sorridere e far sorridere, era il massimo, perché con lei ero certo di non offendere nessuno a causa delle mie battute. Per lei divenni Teroso e lei per me divenne Aremo, invertendo le sillabe di tesoro e amore. E così ci chiamammo per tutto l’anno.
Di Sandra non capivo come facesse a stare insieme con uno molto più grande di lei. Stava perdendo il suo tempo migliore, non credevo possibile che quella relazione potesse essere solida come lei voleva far credere. Era bella e devo dire che mi piaceva molto, ma il fatto che fosse impegnata non mi fece mai approfondire più di tanto la cosa per tentare un approccio, anche se mi sarebbe piaciuto. Parlavamo spesso, ma al momento di parlare di qualcosa di più personale, più intimo, lei si rifugiava sempre nel suo fidanzato, e questo mi seccava parecchio. Quando faceva così non era aria, era meglio cambiare discorso e, spesso, era meglio cambiare interlocutore.
Intanto, fra gli altri nuovi compagni, due ragazze in particolare mi incuriosivano: Sabrina e Raffaella. Erano molto brave, entrambe avevano un anno più di me, provenivano dal Liceo. Dopo essersi accorte che quella scuola non era per loro, ed essendo state respinte, avevano cambiato completamente settore e cercavano il riscatto con Ragioneria. I fatti diedero loro ragione.
Raffaella, molto matura per la sua età, sembrava già una donna, nel carattere e nell’atteggiamento.
Pian piano che passavano le settimane stringevo sempre più amicizia con Sabrina, che era una ragazza piccola ma carina. A ricreazione, o nei momenti in cui si poteva cambiare posto, cercavo sempre più insistentemente di avvicinarla. Mi piaceva stare con lei e poco a poco mi presi una bella cotta.

sabato 30 ottobre 2010

Quattro passi... con Ben - Quattordicesima puntata

Giacomo era un ragazzo molto buono e altamente democristiano. Spesso, quando le lezioni ce lo permettevano, ci mettevamo accanto di banco e cominciavamo a scontrarci con le nostre idee politiche: lui figlio di un direttore di banca, più chiesa che casa, diacono fino alla morte, ed io figlio di operai comunisti che lavoravano in un circolo di comunisti, cresciuto vedendo rosso, ammiratore di Berlinguer. Ero molto più innamorato della politica da ragazzo che oggi.
Ognuno di noi due alla fine rimaneva della propria opinione, ma allo stesso tempo, in quella nostra diatriba politica, la stima era reciproca e fortissima. Ancora oggi, quando ci incontriamo nella banca dove lui lavora, ci salutiamo e ricordiamo quei tempi.
Fra gli altri ragazzi nuovi, ricordo qualcosa di Elvira, che sembrava una diva degli anni trenta, a causa della sua pettinatura. Era un pezzo da novanta: bella, di classe nel portamento.
Spesso quando andavamo in laboratorio di fisica o chimica, sfruttando il disinteresse dei professori, giocavamo fingendo di farci le coccole. Io finivo per appoggiare la mia testa, disteso all’indietro, sulle sue cosce, con lei che mi accarezzava la faccia. Era una finzione, ovviamente. Magari avere una ragazza così, che ha molta cura per il suo ragazzo! A scuola era un disastro e fu bocciata. La rividi molti anni dopo, abbrutita, dall’aspetto rozzo, sciupata dalla vita forse, certamente molto diversa da come la ricordavo.
Faceva la donna delle pulizie ed in quel periodo lavorava per il figlio del mio datore di lavoro. Fui contento e triste allo stesso tempo di rivederla. Che fine aveva fatto la mia diva? Ci salutammo. Io le feci un grande sorriso la mattina che venne in ufficio.
“Ciao Elvira. Che piacere!”
“Ciao Roberto. Sei sempre uguale” disse con un velo di tristezza.
“Certo, come no!” risposi mostrando la mia scarsa capigliatura.
Il suo volto rivelò uno stato di disagio. Forse perché io avevo finito le scuole, ce l’avevo fatta, mentre lei non era andata avanti ed ora doveva arrangiarsi pulendo le case degli altri. Sembrava aver fretta. Colsi quel suo imbarazzo e cercai di tagliare corto.
“Dimmi, sei venuta per le chiavi?”
“Sì, mi hanno detto che le avrebbero lasciate in ufficio.”
“Tieni, ecco qua” gliele detti.
Nei giorni successivi ci vedevamo da lontano, io in ufficio e lei nel giardino di fronte a sfaccendare. Ci salutavamo con la mano, ma non tornò più in ufficio. Poco tempo dopo smise di lavorare lì e non la vidi più.

Settimana pesante

E' stata lunga. Da tanto tempo non provavo questa stanchezza, tale da farmi rientrare in casa e farmi dire: oh, finalmente un po' di riposo!
Adesso spero di poter approfittare dei prossimi due giorni festivi per ricaricare  un po' le pile, magari accompagnandomi con buone letture, se avrò dei momenti in cui potrò permettermi di leggere. Non che ci sia qualcuno a impedirmelo, ma prima preferisco riservare le mie attenzioni ad altro.
Vi auguro un buon week end.

P.s. e se qualcuno ha voglia di camminare, faccia pure altri... quattro passi.

lunedì 25 ottobre 2010

Quattro passi... con Ben - Tredicesima puntata

Fiorello fu al centro di un caso degno di finire a “Chi l’ha visto?”, se all’epoca ci fosse stato, perché ad un certo punto dell’anno scomparve dalla circolazione. Si venne a sapere che si era ammalato, ma il giorno del rientro non arrivava mai. Ma cosa era successo?
Gli insegnanti ci rispondevano che era malato, che suo padre aveva avvertito che sarebbe rientrato, ma non molto presto perché la sua malattia aveva bisogno di una lunga convalescenza. Ma quale malattia? Questo non si poteva sapere.
Erano trascorsi ormai più di trenta giorni e Fiorello ancora non si era rivisto a scuola. D’altra parte nessuno di noi aveva il coraggio di andare a casa sua, poiché, sicuramente, la sua doveva essere una malattia molto grave, vista la lunga assenza.
Un giorno vedemmo entrare a scuola suo padre, un uomo minuto e anziano. Con il passo insicuro e lo sguardo curioso di chi sta cercando qualcosa, si aggirava per i corridoi, affacciandosi ad ogni aula per vedere se era quella che stava cercando. Stava per suonare la campanella della prima ora.
“Buongiorno” disse. “È questa la prima F?”
“Sì” risposi mentre, appoggiato alla porta, parlavo con alcuni ragazzi prima di andare in classe.
“Sono il padre di Fiorello.”
“Piacere, e Fiorello come sta?”
“Bene, … grazie” rispose lui con lo sguardo sorpreso e un po’ meravigliato per quella domanda. “Me lo potresti chiamare, per favore? Devo riportarlo a casa. L’insegnante è ancora arrivato?”
“Mio Dio” pensai. “E adesso?”
In un attimo avevo capito tutto. Fiorello non era mai stato malato. Aveva fatto “forca” per tutto quel tempo. Incredibile! Oltre un mese di assenza, con suo padre che lo credeva a scuola. Sua madre era morta da tempo, per quel che sapevamo.
“L’insegnante sta arrivando. È meglio che l’aspetti e parli con lei. Arrivederci.” Lo salutai ed entrai in classe.
L’insegnante gli fece la solita domanda riguardo alla salute di Fiorello. Io intanto ero al mio posto, ma ricordo molto bene la faccia di quell’anziano signore che divenne pallida quando la situazione iniziò a venire a galla.
Frastornato, deluso, incredulo, tradito dal proprio figlio, e chissà quanti altri brutti sentimenti stava provando in quei momenti quell’uomo. Che dispiacere poteva provare un padre? Sacrificarsi per crescere un figlio ed essere ricambiato con tale moneta. Che cosa poteva essere accaduto affinché Fiorello si comportasse in quel modo? Anche noi compagni di classe ci sentimmo in qualche modo traditi dal suo comportamento. Perché mai tutta quella messinscena?
Le nostre domande rimasero senza risposta, per ovvi motivi di riservatezza, quella che oggi chiameremmo “privacy”. I professori non ci dettero spiegazioni e nemmeno Fiorello quando rientrò. Si limitò a dire che voleva smettere, ma non sapeva come dirlo a suo padre. Dopodiché calò il sipario. Alla fine dell’anno fu bocciato e di lui non seppi più nulla.

domenica 24 ottobre 2010

Quando si sguazza perennemente nel buio

Ho ricevuto dal mio amico Josil questo testo ed ho ottenuto il suo permesso per metterlo sul blog.
Lo ha scritto, come dice lui, in un momento di raptus seguito da irrefrenabile desiderio di scrivere qualcosa.

Quando si sguazza perennemente nel dubbio, non possono scaturire scelte sensate ma decisioni basate sull'improvvisazione ai limiti del teatrale e del bizzarro.
Le conseguenze sono esponenzialmente tanto più devastanti quanto più vi è mancanza di umiltà e incapacità ad ascoltare.
"Umiltà" non vuol dire sottomettersi, ma riconoscere i propri limiti con spirito critico, facendo in modo che l'ottusità mentale che ci limita, allenti un po' la presa.
Ascoltare non vuol dire "rendersi umili", ma rendersi "consapevoli" dell'importanza che riveste il riconoscere che il "tutto" non sta nel singolo.
Il "tutto" è l'infinito; e come tale è talmente vasto e "incomprensibile" che non lo si può né determinare, né tantomeno circoscrivere.
Tendenzialmente tutti pensano di risolvere "tutto" e questa è la spiegazione generica per la quale non lo si teme.
Ed ecco che in questo "non temerlo" entra in giuoco quella superficialità che ci contraddistingue e che se da una parte ci facilita perché ci porta a banalizzare, dall'altra ci rende poveri dentro.
Sì, perché questo "giuoco" del banalizzare, quando lo si usa troppo spesso, ti porta all' "assenza", e cioè al renderti estraneo dalle cose che ti circondano.
E quando quello che ti circonda ai tuoi occhi diventa "assente", o sei un fantasma, o diventi violento, o cominci a vacillare.
Il fantasma dicono che fa paura solo perché fin da piccoli ti viene raccontato come un'entità dalla quale fuggire; in realtà fa solo ridere a sé stesso e agli altri e in fin dei conti alla fine ne scopri la sua inutilità. Nelle rappresentazioni classiche è vestito solo con un semplice lenzuolo bianco, ma perché non nero? Forse è il segnale che già il suo ipotetico inventore lo aveva pensato "innocuo"? Sì, innocuo, inutile e, aggiungo io, "assente". E così da fantasmi ci muoviamo in un mondo che non ci appartiene. Ci viviamo sì, ma senza farsi troppe domande perché tanto non ha bisogno né di domande né tantomeno di risposte. Per questo risulta scostante agli occhi degli altri.
Il violento invece ha tutte le risposte in tasca sua. Peccato che per lui non ne esistano altre, e così tanto più è convinto delle sue idee quanto più le impone con modalità violenta.
Lui sì che spaventa (altro che fantasma)!!; uno che non ti lascia spazio su niente ed è talmente sicuro di sé che gli altri non esistono e possono essere così calpestati a piacere.
E chi invece vacilla? Di sicuro molti entrano in depressione, non si sentono compresi perché credono di essere loro i soli custodi della verità. Peccato che spesso non riescono a fare proseliti. Che tristezza... che fatica... chi ti sta intorno spesso ti evita perché non ne può più dei tuoi sermoni. Sì, perché se il violento fa paura, chi vacilla ti stressa.
Chi non entra in depressione è riuscito a costruirsi una "setta" propria con adepti che lo seguono, oppure si è costruito intorno una famiglia completamente alle sue dipendenze che lo asseconda in tutto ma lo vorrebbe morto.
Ma dunque, se sopra ho parlato delle conseguenze legate al "non temere il tutto" , allora cosa accade a chi lo teme o, diciamo meglio, a chi non lo banalizza?
Ci saranno anche qui fantasmi, violenti e vacillanti? Ma soprattutto, e se chi scrive è un vacillante?
Beh, il mio consiglio è... se pensi che lo sia, chiudi il foglio e brucialo.
Naturalmente proseguire o meno la lettura dipende solo da te indipendentemente da ciò che pensi che io sia, immagino.
Ma prova a chiederti: continui questa lettura perché sei "curioso?" , "umile'?", hai uno "spirito critico?".
Io personalmente non so cosa mi ha spinto a scrivere né tantomeno in questo preciso momento saprei dirti cosa scriverò ancora e soprattutto il perché. In questo momento sono confuso ma felice, come diceva la Carmen Consoli.
Chi teme il "tutto" solitamente in qualche modo vacilla ma con modalità diverse dal vacillante sopra rappresentato.
E così proverò a sintetizzare e dipanare in seguito ciò che mi viene in mente al momento:
- vacilla e barcolla ma non cade
- vacilla e ondeggia ma non cade
- vacilla e cade
Tutti e tre sono travolti pesantemente dalle mille domande e misteri dell'esistenza umana. Chi vacilla e cade ne viene schiacciato e annientato. Chi cade, non ha nessun appiglio, nessuno lo può aiutare perché non trova certezze né dalla scienza, né dalla fede.
Questo apparentemente "caso disperato" ritengo che sia invece il ritratto di molti di noi che ci facciamo sì le domande esistenziali, ma paradossalmente rispetto al "fantasma" che si é costruito un mondo tutto per sé nel quale vivere ma non è "confuso", chi cade nella consapevolezza che non ci si può sottrarre dalle questioni esistenziali, vive peggio del fantasma.
E che dire di coloro che ondeggiano? Sulle questioni esistenziali si sentono un po' atei quando serve esserlo e un po' credenti al tempo stesso (da qui il termine ondeggiare). Un mix che poi non risolve e non dico niente di nuovo, un mix che anche in questo caso crea confusione ma ti tiene su una "stampella" per non farti cadere e cedere del tutto.
Dunque a questo punto resta il pezzo forte. Quello che barcolla in effetti è quello che a mio avviso una decisione finalmente l'ha presa.
Ma sia che si tratti di scienza o di fede, la strada l'ha tracciata con la volontà di perseguirla superando gli ostacoli che incontra e credendoci fino in fondo. Di questi ce ne sono pochi ma è lì che dobbiamo cercare di arrivare tutti.
Eccomi qua, ho riletto tutto ciò che avevo scritto finora e mi è saltata subito in mente una considerazione. Ma se ero nato in un villaggio sperduto nella foresta amazzonica avrei ugualmente scritto quello che ho scritto? Direi proprio di no.
Già un lettore della mia stessa specie mi avrà dato di matto a leggermi, figuriamoci un ipotetico lettore di uno sperduto villaggio dell'Amazzonia cosa avrebbe pensato di me dopo queste poche righe.
Allora come funziona lì da loro? Di primo acchito ecco che mi viene in mente il "senso di appartenenza". In questi popoli il significato di stare insieme assume un’importanza che da noi ormai è solo a parole e non la ritrovi neppure nelle squadre di calcio.
Ecco come li vedo io e come credo che molti si immaginano; un solo popolo , un solo gruppo in condizioni difficili ma unito da quell'appartenenza senza la quale la vita sarebbe impossibile. Ma se poi vai a vedere anche lì, in popolazioni solo apparentemente "elementari" si scopre che l'appartenenza non è sufficiente; c'è un divino a cui riferirsi, sia esso natura (scienza) o divinità (fede).
Ma è giusto il termine "riferirsi" in questo caso? Ma cosa faccio: mi faccio le domande da solo? Oh oh... per questa volta passa.
Sì, perché ciascun popolo si riferisce a più divinità o a un dio unico chiamandolo con nomi diversi ma quello che è sorprendente è che non se ne può fare a meno.
Così almeno io penso di aver compreso che i problemi esistenziali inevitabilmente portano al divino.
E concludo come dice il grande Battiato:

... che siamo esseri immortali
caduti nelle tenebre, destinati a errare;
nei secoli dei secoli, fino a completa guarigione...

Grazie Josil.

sabato 23 ottobre 2010

Quattro passi... con Ben - Dodicesima puntata

La 1^ F Ragioneria era nel distaccamento di Via Fonda.
In quell’edificio fatiscente c’erano poche aule, per cui non fu difficile trovarla. Fui tra i primi ad arrivare e così aspettai con ansia gli altri vecchi compagni delle medie, mentre molte facce nuove stavano entrando. Uno ad uno arrivarono Riccardo, Elena, Andrea, Maria Grazia, Gigi, Fiorello, Maurizio, tutti provenienti dalla vecchia III A delle medie.
Presi posto all’ultimo banco con l’inseparabile Riccardo. Davanti a noi si sedettero due ragazze, Paola e Sandra, che conoscevo di vista perché avevamo frequentato la stessa scuola elementare, ma in sezioni diverse. Paola era rossa di capelli, un po’ grassottella, con una simpatia esplosiva. Sandra era più riservata, già fidanzata con un ragazzo molto più grande di lei, un po’ meno simpatica, inizialmente, e molto carina. Abitava al Nespolo e molti ragazzi del posto avevano tentato inutilmente di farle la corte, per dirla con una parola di altri tempi.
Andrea era finito nelle prime file insieme a Gigi che, a causa della sua stazza fisica, copriva tutti quelli che gli stavano dietro. Elena e Maria Grazia erano alla mia destra.
Dall’ultima fila si dominava tutto, si vedeva ogni cosa e soprattutto ci si nascondeva bene dallo sguardo dei professori. In pochi giorni prendemmo confidenza con i nuovi compagni, soprattutto con Paola e Sandra, con le quali iniziò un rapporto di collaborazione e complicità che ci portò ad essere amici, molto più che con i vecchi compagni delle medie.
Con Riccardo eravamo ancora compagni di banco, ma fuori dalla classe c’era poco o niente perché, nonostante io fossi ancora legato a lui, egli aveva preso un’altra strada; usciva con ragazzi che avevano il motorino, come lui, e per me, che ero appiedato, non c’era più spazio.
Andrea frequentava nuove amicizie, fatte dopo essere ritornato ad abitare a Pistoia.
Maurizio era di una simpatia unica, una battuta dietro l’altra e, come alle medie, riuscivamo a divertirci molto quando finivamo, per un motivo o per un altro, vicini di banco.

martedì 19 ottobre 2010

Stasera...

... ho appreso un nuovo concetto: il silenzio come fondamento della parola.
E adesso devo rifletterci un po' su.

domenica 17 ottobre 2010

A volte...

... ho la sensazione di lasciare il Rifugio in balia di se stesso.
Avrei delle cose da dire, ma poi rinuncio, perché... boh, il motivo non è ben chiaro nemmeno a me.
E allora inserisco qualcosa che ho già scritto, come gli episodi di Quattro passi.
Eppure, quella stessa cosa, non avrei esitato a scriverla un po' di tempo fa, ma ora non mi va.
Poi leggo un commento, fra quelli lasciati, nel quale Maria dice che quello che scrive se lo tiene per sé e se lo rilegge quando ne sente il bisogno.
E, come la sua, ho altre testimonianze di persone che scrivono, ma che non si sentono pronte alla condivisione.
Chi invece, come me, cerca di tenere aperto un blog, normalmente butta in pasto al web quasi tutto quello che gli passa per la mente o per il cuore.
E chissà poi perchè?!
In questo momento, forse, anch'io non mi sento pronto per la condivisione, ma, come vedete leggendo questo post, quanto è difficile rinunciarvi!

sabato 16 ottobre 2010

Quattro passi... con Ben - Undicesima puntata

L’estate che precedette l’inizio delle superiori fu caratterizzata dal massimo dei divertimenti. Avevamo formato un gruppetto molto affiatato di ragazzi, tutti del Nespolo, e spesso ci riunivamo a casa di qualcuno di noi per giocare.
A casa mia organizzammo magici ed infiniti tornei di ping pong.
Al circolo facemmo molti tornei di tennis sotto il sole dei pomeriggi di luglio.
Eravamo abbronzantissimi, neri come il cappello di un prete.
In quel periodo andavano di moda molti giochi radiofonici e spesso tentavamo la fortuna telefonando. La maggior parte delle volte era impossibile prendere la linea e così finivamo col giocare a carte oppure a battaglia navale a gruppi o ad altri giochi ancora. Un posto di ritrovo di questi incontri estivi era a casa di Elena, tutti seduti attorno ad un tavolo sotto un pergolato di viti.
Quello era il posto che preferivo, perché era raccolto e fresco allo stesso tempo; inoltre potevamo fare anche un po’ di confusione perché nessuno veniva infastidito.
Quella divenne la sede delle nostre giornate estive.
“Dove andate?” chiedeva la mamma a me e a mio fratello quando partivamo.
“Da quei ragazzi” era la risposta.
Quelle tre parole avevano un preciso significato, e cioè:
“Usciamo, andiamo a casa di Elena a giocare con Massimo, Moreno, Fabrizio, Gianluca, Elena, Tiziano, …”
La sera, dopo cena, il ritrovo preferito era sul muro di Renatino. Era il muro di cinta della casa dove abitava Renato, un ragazzo della mia età, alto e magro, talmente magro che questa sua caratteristica predominava sulla sua altezza, tanto da fargli affibbiare quel soprannome.
Lì, in un turbine di battute, si rideva a crepapelle e l’indubbio protagonista era Massimone, un ragazzone grosso, di qualche anno più grande, oggi avvocato, che ci deliziava con le sue storie.
Noi ragazzi più piccoli restavamo incantati a sentire le sue avventure. Mischiava una piccola parte di verità a una grossa dose di balle, ed il risultato era quello di ascoltare dei veri e propri racconti degni del più bugiardo degli artisti. Ogni sua frase era una battuta. Questo per le storie normali. Quando poi parlava di donne era il massimo dell’apoteosi. Per capire bisognava provare a immaginare un film molto spinto e comico allo stesso tempo: ebbene, il risultato sarebbe stato un film da ragazzi.
Era geniale e con la sua ilarità coinvolgeva tutti in serate che sarebbero state irripetibili solamente pochi anni dopo, perché con l’avvento dei motorini, il paese perse d’importanza e tutti cominciarono a cercare divertimenti più lontano.

mercoledì 13 ottobre 2010

Quattro passi... con Ben - Decima puntata (compresa la restante mezza)

Era anche il tempo delle partite di calcio al campino.
Avevamo scoperto un nuovo campo e lo avevamo attrezzato di tutto punto. Era all’interno di un vivaio, e il titolare, Lorenzo, era un uomo molto burbero. Ci aveva dichiarato guerra.
“Se vi trovo ancora qui, chiamo i carabinieri!” aveva urlato l’ultima volta che ci aveva sorpresi. Noi eravamo scappati a gambe levate, ma non ci aveva impauriti più di tanto. Così ritornammo ancora molte volte.
Un giorno ci scoprì di nuovo, ma, contrariamente al solito, apparve senza urlare.
“Oggi qualcuno di voi tornerà a casa a piedi!” e così dicendo se ne andò.
Mentre andava via, vedemmo che dalla sua auto usciva qualcosa: sembrava una ruota.
Di colpo capimmo e corremmo verso le biciclette: alcune erano scomparse. Mancavano la mia e quella di mio fratello.
Quel giorno tornammo veramente a piedi, come aveva detto Lorenzo, ma non volevamo dirlo al babbo e alla mamma, perché sicuramente avrebbero dato ragione a lui e ci avrebbero brontolato per aver continuato ad andare al campino pur sapendo che il vivaista ce lo aveva impedito.
Non aspettammo un minuto di più e andammo, a piedi, a casa di Lorenzo.
Sul piazzale stavano lavorando; c’erano due camion che gli operai stavano caricando di piante. Io e Mauro ci appostammo dietro la siepe di recinzione per studiare la situazione e poco dopo vedemmo le nostre biciclette, appoggiate al muro della casa, proprio sotto una finestra, dentro la quale si intravedeva una cucina. Dovevamo attraversare tutto il piazzale per arrivare fin là e questo non era semplice; ci avrebbero visti sicuramente e addio biciclette.
Dovevamo inventare qualcosa. Allora ci venne in mente che dalla casa di Elena c’era una stradina che portava fino alla casa di Lorenzo. La prendemmo e arrivammo a circa dieci metri dalle biciclette. Era quasi fatta, ma ad un tratto uscì Lorenzo, che si sedette sulla sua panchina per vedere le operazioni di carico.
“Accidenti, proprio ora!” esclamò Mauro.
“Che facciamo?” domandai.
“Aspettiamo, prima o poi si dovrà alzare” rispose.
Nel frattempo ci eravamo mimetizzati fra dei filari di edere, ma non potevamo stare lì per molto tempo, perché gli operai ci avrebbero potuto vedere, richiamando l’attenzione di Lorenzo.
“Ho un piano” dissi. “Lui ha le biciclette, ma non sa che sono le nostre. Avviciniamoci a lui normalmente e quando siamo vicini corriamo velocemente verso le biciclette, le prendiamo, scappiamo via e buonanotte Lorenzo!”
“E se le ha legate?” disse Mauro dubbioso.
“Faremo una figura di cacca e gli chiediamo anche scusa” risposi sorridendo.
“OK.”
Era deciso. Avremmo riconquistato le nostre biciclette. Il mio cuore batteva a mille all’ora, ma più per la eventuale figuraccia che per la paura.
Uscimmo fuori dalle edere e ci incamminammo verso Lorenzo, che capì subito. Fece la mossa di alzarsi dalla panchina, ma noi fummo più svelti di lui; cominciammo a correre e divorammo quei pochi metri che ci separavano dalla meta. Prima Mauro, poi io, saltammo sopra le biciclette, che fortunatamente non erano legate, e scappammo via urlando: “Sono nostre queste, ci rivediamo al campino, caro Lorenzo!”
Egli si mise a ridere e ci urlò dietro a tutta voce: “Non penso, delinquenti!”
Ebbe ragione lui. Infatti, alcuni giorni dopo, il campino non c’era più. Le porte non c’erano più, le bandierine del calcio d’angolo erano accatastate da una parte ed al posto del campo c’erano tanti solchi. Lo aveva lavorato per piantarci le piante.
E così dovemmo dare l’addio alle nostre partitelle.
Per giocare un po’ a pallone, dovemmo iscriverci in una squadra di calcio, ma non fu altrettanto divertente.
Le medie stavano terminando, c’era un esame da affrontare, ma soprattutto c’era da scegliere come proseguire gli studi. C’era una nuova scuola che si stava facendo strada e che attirava particolarmente la mia attenzione: era quella per Ragionieri Programmatori. Si stava entrando nell’era dei computer ed io volevo entrarci in prima persona.
Sapevo che a Pistoia non c’era quella scuola, che avrei dovuto fare il biennio della scuola di Ragioneria e poi andare a Firenze. Quest’avventura mi affascinava e fui deciso scegliendo Ragioneria per proseguire poi in quel progetto. Anche Riccardo, Andrea e Gigi fecero la mia stessa scelta. Così anche Elena e Maria Grazia. Fabrizio decise di smettere per andare a lavorare, mentre Gianpiero scelse Geometri.
Le nostre strade cominciavano a separarsi. Eravamo di fronte a scelte importanti per il nostro futuro. Gli ultimi tempi delle medie furono caratterizzati più da questa ansia, che dalla paura dell’esame.
Nemmeno la gita di Ravenna ci rese quella serenità che avevamo alcuni mesi prima.
Fui promosso con il massimo dei voti: “Ottimo”.
I miei genitori, al settimo cielo per quel risultato, non influenzarono la mia decisione per il proseguimento degli studi e di questo non smetterò mai di ringraziarli.
Ero pronto per le superiori.

lunedì 11 ottobre 2010

Quattro passi... con Ben - Ottava puntata e mezzo

Facemmo altre feste: da Andrea, da Riccardo, da Elena.
Già, da Elena: fu la festa più triste.
Lei aveva preparato tutto molto bene, in garage: musica, tramezzini, bibite, luci, c’erano persino i festoni attaccati da una parete all’altra. La musica iniziò e noi ragazzi volevamo ballare con le ragazze, solo che loro ormai non ci consideravano più, poiché si sentivano molto più grandi di noi. Ma allora perché ci avevano invitati? Probabilmente i genitori avevano voluto soltanto i ragazzi compagni classe. Cominciarono a ballare fra loro e noi lì, come dei fessi, a guardarle. Chiedemmo nuovamente di ballare, ma alcune ci chiamarono “piccoletti”, mentre Elena cercò di mediare. Ormai era guerra dichiarata e così iniziammo a chiamarle di tutti i colori, fino alle offese. Intervenne la mamma di Elena che, in quattro e quattr’otto, mandò tutti a casa.
Ho ancora il ricordo di Elena seduta sulla sedia con le lacrime agli occhi. La sua festa era terminata nel peggiore dei modi e noi maschi eravamo stati davvero stupidi. Era triste, quasi ciondolava su quella sedia. Mi avvicinai a lei, mentre me ne andavo. “Mi dispiace” dissi. Non seppi dirle altro. Lei non mi rispose. Si alzò e se ne andò in casa senza salutare. Non venne più alle nostre feste.

sabato 9 ottobre 2010

Su Ben... oltre è arrivato...

... il momento dei saluti.
Un'esperienza che si chiude non è mai un momento felice, anche quando si tratta di un blog.
Rimarrà al suo posto, perchè non voglio perdere niente e nessuno di quella esperienza.
Intanto però è arrivato il momento dei saluti.
E non posso negare una certa tristezza.