Fermo immagine

Guardo fuori e penso.

Mi sembra quasi impossibile che sia trascorso così tanto tempo. Fino ad una certa età ci sentiamo forti, invincibili. Poi cambia tutto nel volgere di pochi anni. Proprio come è capitato a me.

Dicono che porto bene la mia età, ma a me sembra di essere soltanto il ricordo di un uomo, di quell’uomo che sono stato.

Adesso me ne sto seduto davanti alla finestra, avvolto in un pannolone intriso di piscio caldo, e guardo la vita degli altri che passa davanti ai miei occhi.

È come un film muto. Immagino di essere al di là di quel vetro che mi separa dalla vita, quella vera, e di essere un attore, magari uno dei protagonisti. Il silenzio avvolge le mie giornate, mentre le voci della tv fanno da sottofondo alla mia esistenza.

I miei figli non capiscono. Sono bravi, per l’amor di Dio, ma non capiscono che non sono più quello di una volta. Forse non vogliono accettare il fatto che sia invecchiato. Sono sordo, ci vedo meno, i riflessi sono rallentati. Quando non rispondo gridano, si arrabbiano quasi. Ma io ho bisogno dei miei tempi. Loro, invece, non si rassegnano, pensano sempre che io abbia cinquant’anni. Non lo fanno per cattiveria, per loro sono ancora giovane, forte, in testa. Ma anche quella mi sta abbandonando. Alcuni ricordi se ne sono andati, altri si affievoliscono sempre più. Le parole non escono sempre. Restano i pensieri.

Ho alcune certezze: il mio nome, Pietro. Il nome di mia moglie, Mina, buonanima. Non ricordo più la data del matrimonio, qualche volta ricordo solo l’anno, ma non la data completa. Non ricordo cosa ho mangiato a colazione. I compleanni non esistono più. Questo mi fa male, e fa male anche a chi si aspetta un augurio che non arriverà. Provo a scriverlo su dei foglietti, ma poi mi dimentico di leggerli o li perdo in qualche cassetto. È come se avessi perso la cognizione del tempo. Forse l’ho persa.

I miei figli dicono che sono egoista, che penso solo a me stesso. Non è vero, cerco solo di non dare fastidio più del dovuto. Non sono ancora rimbambito, ma spesso mi sento come se lo fossi. Vorrebbero che fossi come loro, ma io non sono come loro. Mi trovano un sacco di difetti, ma se sono cresciuti bene, qualcosa di buono l’avrò fatto anch’io, o no? Ho sempre amato la schiettezza. Ho sempre detto quello che penso, in faccia a tutti. Ma quando questa schiettezza viene rivolta nei miei confronti vorrei che fosse addolcita un po’.

Hanno detto che vogliono assumere una badante. Ne hanno trovata una che sembra brava, gentile ed è pure bella. Cosa vuoi che cazzo me ne freghi se è bella. A me piaceva solo la mia Mina, nessuno potrà sostituirla. E poi sono ancora autosufficiente, non ho bisogno di nessuno. Puoi assumere anche dieci badanti, ma la casa senza la Mina sarà sempre vuota.

Ogni volta che affrontiamo questo argomento finisce che alziamo la voce. La conversazione assume i toni di un litigio. Chi direbbe che stiamo solo parlando? Ci accaloriamo e sembra che litighiamo, ma per Dio, da qui a litigare… Tutto qua. Io non voglio nessuno, chiaro? Di fame non morirò di certo, un piatto di pasta ancora riesco a farlo. Le pulizie, lavare… quelle un po’ meno, anzi, per niente. Basta, accidenti, non voglio pensarci.

Oggi è una giornataccia, spero che non venga nessuno, così me ne starò da solo. Mi terranno compagnia i miei ricordi. I ricordi sono come delle scatole. All’improvviso si presentano, da sole, e si sistemano nella stanza. E Dio solo sa da che parte arrivino! Alcune sono piene di polvere, come quella laggiù, altre sono grandi. Poi ce ne sono di quelle meno sporche, altre sono piccole. Alcune volte lo sguardo le cerca, ma proprio quella che interessa non c’è, non è venuta.

Guarda, lo scuolabus si è appena fermato nella strada. La porta si sta aprendo e Giulia fra poco scenderà. Non ha ancora dieci anni, o forse sì? Appena scende corre subito per entrare in casa, vuoi scommettere? Infatti. È così ogni giorno. Che vitalità quella bambina!

Devo avere qualche foto di quando andavo a scuola proprio in quello scatolone polveroso che sta laggiù, vicino alla porta. Ma che diamine… era là! Come fa ad essere qui, adesso, vicino alla mia poltrona?

È facile da aprire questo scatolone, non serve nemmeno il taglierino per tagliare il nastro adesivo. Fatto. Le foto devono essere proprio qui. Eccole. Sono un po’ ingiallite, ma sono ancora nitide. Le guarderò una ad una, voglio vedere se c’è ancora la foto di gruppo delle elementari. Me la ricordo bene… devo solo cercarla… e trovarla. Eccola, trovata. Hai visto che c’era? È proprio lei.

Io sono in prima fila. Mi hanno sempre messo lì perché sono sempre stato piccolino. Nella seconda, in piedi, oltre alla maestra ci sono gli altri compagni di classe, fra i quali Fabiola, il primo amore. Ma che anno era? La foto la facemmo in quinta elementare. Che età abbiamo in quinta? Non ricordo, accidenti, troppo difficile fare il calcolo. Se ho iniziato a sei anni… o sette? Al diavolo i calcoli! Ero in quinta e questo mi basta. Però, con quel ciuffetto sulla fronte ero proprio bellino. E con quel grembiulino poi… ero proprio fico!

Fabiola era carina, molto carina con i suoi capelli scuri a caschetto che le ricadevano sulle spalle. Era un po’ più alta di me. E chi non lo era?

Forse Giulia ha l’età che aveva Fabiola nella foto, forse anche lei fa la quinta. Noi non avevamo lo zaino e nemmeno lo scuolabus che veniva a prenderci e a riportarci. Noi camminavamo per chilometri e chilometri, sia all’andata sia al ritorno, per raggiungere la scuola e poi tornare a casa. Eravamo allenati noi, nemmeno un filo di grasso. Non per le camminate che eravamo costretti a fare, anche per quelle, ma soprattutto perché avevamo poco da mangiare. A volte non c’era niente da mettere in tavola. La nostra era una dieta naturale.

Fu andando a scuola che vidi Fabiola per la prima volta. Non che non l’avessi vista prima, era in classe con me, che diamine, ma fu la prima volta che la vidi con occhi diversi e mi accorsi di lei. Era qualche metro davanti a me, con una sua amica. Io le seguivo, ma pensavo solo a lei, a come poterla conoscere, a cosa potevo dirle per attaccare bottone. Se solo avessi avuto un amico, una spalla, qualcuno in grado di aiutarmi in quella impresa. Me la dovevo giocare da solo. Ma cosa avrei potuto dirle? Tutto quello che mi passava per la mente mi sembrava banale, scontato, sicuramente poco interessante per lei. Che imbranato! Ma perché non ero spigliato come Tiziano? Quello come apriva bocca riusciva sempre a catturare l’attenzione, anche se diceva una cazzata, soprattutto se diceva una cazzata. Io non ero capace nemmeno di dire quelle. Cercavo sempre qualcosa di serio da dire. Ero in quinta e non sono mai stato bambino. A volte penso: che vita triste, la mia. Credo che ogni età debba essere vissuta, ma con il passare degli anni mi sono convinto che per me non è stato così.

Per farla breve, non riuscii mai a dire niente a Fabiola nel tragitto per andare a scuola. Ma il destino mi venne incontro e mi dette una mano. Capitò un giorno che andammo a fare il bagno nel fiume, una delle rare volte che venni a saperlo e che fui invitato ad andare con gli altri. Quel fiume aveva una vasca naturale, una specie di piscina dove l’acqua era molto profonda. Chiamavamo quel posto Bozzaltura. I più coraggiosi si tuffavano lì dentro dopo aver preso una lunga rincorsa. Era un bel salto, forse quattro o cinque metri. Alcuni dicevano sei. Io non ero fra quelli e preferivo sostare sulla riva, dove l’acqua era bassa e dove si poteva star seduti in ammollo, con l’acqua che arrivava, al massimo, all’altezza della pancia.

I più grandi mi prendevano in giro e dicevano che ero un fifone. Provocavano in continuazione ed era difficile non cadere nella tentazione di reagire. Ma un giorno dovetti accettare una sfida, non potevo continuare a fare la figura del cacasotto davanti a Fabiola.

In quell’occasione Tiziano, istigato dai più grandi, disse che… disse…

Ma perché Giulia non è ancora entrata in casa? Adesso busso sul vetro e le dico di venire qui. Non mi sente…  Forse non c’è nessuno, ma non può restare lì fuori, è pericoloso per una bambina della sua età. Devo aprire la finestra per chiamarla. Accidenti, non ci arrivo. Vaffanculo! Come faccio ad attirare la sua attenzione? Stai calmo, aspetta… Meno male, il padre è arrivato.

Dove ero rimasto? Ah sì, Fabiola. Ma di Fabiola cosa vuoi che ricordi? Il primo amore non si scorda mai, dicono. C’è del vero, forse la persona non si scorda mai, ma il sentimento viene superato dal vero amore, anche se non è il primo. La Mina non si scorda mai!

Ehi, e questa, tutta polverosa, da dove spunta fuori? Sembra un forziere, una specie di scrigno. Chissà se contiene un tesoro, come nei libri di avventure. Con queste battute non faccio più ridere neanche me stesso. Fai pena, Pietro, sei proprio alla frutta.

Il padre di Giulia è arrivato…

Guardiamo cosa c’è dentro. Accidenti quanta polvere, guarda che mani sporche. Una strofinata sui pantaloni e tornano pulite. Ecco fatto. Guardiamo cosa c’è dentro. Ma sì, questa me la ricordo. Io non ero ancora nato. Mio padre era poco più di un bambino. Allora crescevano più in fretta: la miseria, la fame e la guerra li rendevano subito adulti.

Un giorno mi raccontò una storia pazzesca. Per guadagnarsi qualcosa da riportare a casa, faceva qualche piccolo servizio per i soldati di una caserma, e quelli, in cambio, gli davano qualche moneta o qualche cioccolata. Tutto contribuiva alle vuote casse della famiglia, a volte sembrava tanto anche qualche pezzo di pane raffermo che veniva bagnato nell’acqua quando era troppo duro.

Stavo dicendo… Sì. Facendo quei servizi veniva fatto entrare senza tanti controlli all’interno della caserma. Era diventato una piccola mascotte e, girovagando qua e là, la conosceva bene, dalle cucine ai magazzini. E anche qualche piccolo passaggio che era sconosciuto ai più.

Durante la guerra, quella caserma venne presa dai tedeschi per farne un punto di raccolta di tutti gli oppositori e di tutti i loro nemici. Ci finirono anche molti ebrei.

Lui lo apprese perché ne sentì parlare in famiglia. I suoi gli vietarono di tornarci. Era diventato pericoloso il solo avvicinarsi. Non c’erano più i soldati che conosceva, ma gli oppressori. Ma lui non capiva bene cosa significava essere prigionieri e perché delle persone dovessero essere tenute rinchiuse lì dentro. Dall’alto della sua innocenza e della sua ingenuità pensò bene di sfruttare la conoscenza di quel posto per liberare qualcuno. Cosa ci vuole, disse, so io da dove passare.

Capirai, una cosetta da nulla: un bambino contro le guardie dell’esercito più temuto del mondo!

Per lui era come giocare a guardie e ladri, ed in un lampo sparì, senza dare il tempo ai suoi genitori di muoversi per riacchiapparlo. Non riesco ad immaginare la preoccupazione e la paura dei nonni che non fecero in tempo a trattenerlo, né a trovarlo quando uscirono di casa. In tre e tre sei, era sparito nel nulla. Avvicinarsi alla caserma voleva dire farsi catturare. Con il cuore in gola, non poterono fare altro che aspettare. E sperare. E pregare. Fu una notte insonne.

Io mi sarei cacato sotto.

Tornò il mattino seguente, sporco come se si fosse rotolato in un pollaio, ma sorridente. Baci, abbracci e lacrime che non sto a dire. La paura non era passata, ma la curiosità era tanta. Così i suoi gli chiesero che cosa aveva fatto tutta la notte. Lui, per prima cosa, disse che aveva fame, e ottenne un pezzo di pane e un po’ d’acqua. Fra un sorso ed un morso, raccontò che aveva fatto scappare un po’ di ebrei, passando per i passaggi che solo lui conosceva. Fino a quel momento, perché poi, disse, dopo aver accompagnato fuori una famiglia, uno di loro, che ormai aveva imparato come fare, tornò indietro per fare scappare gli altri. Ma quanti altri? Non li aveva contati e non lo seppe mai fino a qualche anno fa, quando sentì una storia per televisione. Era un pomeriggio come tanti altri e lui stava guardando un programma, uno di quelli dove si parla molto. Quel giorno un ebreo, molto anziano, raccontò di essere stato liberato da un bambino che aveva fatto passare lui ed altri da un cunicolo nascosto sul retro della cucina di una caserma. Alla fine furono otto a fuggire grazie a lui, ma non avevano mai saputo chi fosse e come si chiamasse. Nessuno di loro aveva mai avuto modo di ringraziarlo. Sperava che fosse ancora vivo e che stesse guardando la trasmissione. Lo ringraziò con tutto il suo cuore perché, se aveva potuto vivere la sua vita, lo doveva a quel bambino, un eroe vero.

Sentendo quel racconto mio padre si bloccò. La mamma, alla quale aveva raccontato in precedenza quell’episodio, chiese se fosse proprio quello e se quel bambino fosse proprio lui. Mio padre, non potendo parlare per la commozione, annuì. La mamma l’abbracciò e piansero insieme.

È stancante aprire queste scatole. No, il fisico non c’entra niente. Sono i ricordi che pesano e i sentimenti che possono fare male. Sono vecchio e mi nutro di ricordi, fino a quando mi sarà possibile. Sono sempre meno, ma alcuni sono lucidi. Guardo quelle scatole e non ho voglia di aprirle tutte. So benissimo cosa c’è dentro, altrimenti non sarebbero in questa stanza, con me. Quella contiene le ultime ore della Mina. Quell’altra i momenti più belli dei miei figli, ma anche quelli brutti. Quella invece la nascita dei miei nipoti, che vedo sempre meno. Dolore e gioia fanno a pugni, ma convivono. Alcuni giorni va meglio, altri peggio.

Aspettando la sera me ne sto qui davanti alla finestra, avvolto nel mio pannolone intriso di piscio, e guardo la vita degli altri che passa, se passa, facendo affiorare dei ricordi. Altrimenti è solo un fermo immagine.

Quando farà buio qualcuno arriverà e non sarò più solo.

 

 

3 commenti:

  1. Bravo. Bravo. Bravo, Roberto.
    Per ora non aggiungo altro, se non un ringraziamento e un abbraccio.
    Ines

    RispondiElimina
  2. Grazie. Grazie. Grazie, Ines.
    Se avrai voglia di aggiungere, la porta del Rifugio è aperta.
    Un abbraccio a te.

    RispondiElimina
  3. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

    RispondiElimina