Adagio nella nebbia

Era l’ultimo giorno dell’anno.

Nel tardo pomeriggio Fabri decise di andare alla lavanderia automatica.

«Chissà se fuori fa freddo» pensò.

Aprì la finestra per sentire la temperatura. Notò un grande silenzio ed una fitta nebbiolina avvolgeva tutto il paese. Tutti si stavano preparando per il gran finale, la notte più attesa dell’anno, quella piena di aspettative, quella dove si cerca di divertirsi, quella dove si tenta di lasciarsi scivolare dietro le spalle un anno che poco dopo non ci sarà più, quella che immette in un anno ancora sconosciuto, ma pieno di speranze e di buoni propositi. Un anno migliore, sempre migliore del precedente.

Fabri si infilò il cappotto, prese la borsa con i panni sporchi, guardò se aveva gli spiccioli nel borsellino. Dopo aver appurato che tutto era a posto, uscì di casa chiudendosi la porta alle spalle e s’incamminò.

Avvertì il profumo della nebbia che gli entrava nelle narici. Avrebbe riconosciuto quell’odore fra mille altri. Lo avvertì per la prima volta una notte di Natale, recandosi in bicicletta alla Messa. Aveva meno di dieci anni quando questo accadde. Poi lo sentì di nuovo molti anni dopo, quando, suo malgrado, visse per un periodo in un paese del nord Italia. Quella sera era penetrante, molto penetrante.

Camminava e la nebbia ovattava ogni cosa. Non c’era nessuno per la strada, soltanto la luce fioca dei lampioni che a fatica si apriva un varco per farsi notare e alcune macchine che procedevano lentamente, con cautela, quasi non sapessero dove andare. Le luminarie che avevano lavorato all’impazzata nei giorni delle festività, adesso sembravano fiacche ed i loro giochi di luce sembravano volersi riposare. Ancora pochi giorni e sarebbero state riposte in una scatola fino all’anno successivo.

Il supermercato, con la sua insegna rossa che riusciva a stento a penetrare la nebbia, era ancora aperto, ma di lì a poco avrebbe chiuso. Fabri allora pensò alla cena che doveva prepararsi e mentalmente aprì il suo frigorifero per ripassarne il contenuto. Una bottiglia di acqua vuota per metà, una monoporzione di lasagne da scaldare nel forno a microonde, un sacchetto di insalata pronta in scadenza, due uova, un cartone di latte già avviato e una braciola che, stanca di stare lì, supplicava di essere cotta.

«Forse faccio in tempo a comprare qualcosa per domani» pensò.

Passo dopo passo, arrivò alla lavanderia. Entrando fu accolto dalle luci bianche al neon che stridevano con tutta la tecnologia di quella stanza. Non c’era nessun altro. Alcuni oblò erano aperti, lasciati così, senza cura, da qualcuno in precedenza.

Si tolse il cappotto. Cambiò i gettoni, caricò la lavatrice svuotandoci il sacco con tutti i suoi panni sporchi, lanciò il programma di lavaggio e si accomodò. Fabri aveva scelto il programma più lungo. Il contatore cominciò il suo countdown.

Prese un giornale che giaceva sul tavolo, accanto alle ceste per raccogliere la biancheria. Era di alcune settimane prima. Lo rimise subito al suo posto.

Voltò lo sguardo verso l’entrata e notò, per terra, un foglietto.

Pensò che fosse stato gettato lì da qualche maleducato che aveva preferito il pavimento al cestino, che invece se ne stava bello pulito e visibile nell’angolo.

Si alzò per raccoglierlo e gettarlo nel posto giusto. Lo raccolse. Sopra c’era un numero di cellulare ed un nome: Patrizia.

Quel foglietto cominciò a scottare nelle sue mani e la sua mente a vagare per strade inconsuete, sconosciute, che lo conducevano in luoghi mai esplorati prima.

«Cosa faccio? La chiamo? No, non la chiamo. E se poi fosse una bambina o una signora anziana? No, non la chiamo. E se invece fosse una signora come me? Sì, la chiamo. E se invece fosse sposata? No, non la chiamo.»

Rimase lì a porsi domande senza rendersi conto del tempo che passava, confuso, quasi incosciente, insensibile ad ogni stimolo esterno. Ogni tanto puntava lo sguardo sul contatore che continuava imperterrito il suo countdown.

D’un tratto la luce del neon ebbe una scossa, come se fosse rimasta vittima di uno sbalzo di corrente. Fu un attimo, poi si spense. Quando si riaccese, la luce non era più bianca come prima, ma più calda, capace di donare alla stanza un aspetto meno impersonale e freddo.

Fabri si rigirò ancora il foglietto fra le mani, poi si decise. Prese dalla tasca il suo cellulare. «Ma sì, posso sempre dire di aver sbagliato numero» disse dentro di sé per convincersi. Compose quel numero. Ad ogni cifra digitata corrispondeva un battito più forte del suo cuore.

Quando ebbe terminato di comporlo, il suo cuore sembrava un rullo di tamburi, capace di scoppiare da un momento all’altro.

Era libero. Suonava. Una, due, tre volte…

Vide apparire una giovane signora alla porta. Si fermò appena fuori. Fabri la guardò, senza interrompere la chiamata. Ormai era deciso ad andare fino in fondo.

La giovane signora appoggiò per terra il suo sacco della biancheria, freneticamente cominciò a cercare qualcosa nella borsetta. Sempre più in fretta, sempre più in fretta. Finalmente trovò quello che cercava. Era il suo cellulare, che estrasse portandolo all’orecchio.

Il telefono continuava a suonare e Fabri continuava a guardare quella giovane signora che aprì la porta, vi si appoggiò, reggendola con la parte posteriore del suo corpo, mentre con la mano libera, dopo essersi chinata, riprese la borsa della biancheria.

Con una giravolta si lasciò alle spalle la porta che si richiuse lentamente, e nello stesso istante, rivelandosi a Fabri, rispose al telefono.

«Pronto!»

Quella voce echeggiò nella stanza vuota e qualche frazione di secondo dopo risuonò dal telefono di Fabri.

«Pronto!»

E di nuovo quella voce risuonò nella stanza e nell’orecchio di Fabri.

Allora Fabri capì. Era lei, era Patrizia!

La guardò, il telefono gli cadde di mano. Era bellissima!

Patrizia, non ricevendo risposta, chiuse la telefonata. Il rumore del telefono caduto di Fabri attirò l’attenzione di lei verso di lui.

Fabri raccolse il telefono, lo ripose in tasca e riprese a guardare Patrizia. Aveva i capelli corti, tendenti al biondo, con qualche cioccia di colore diverso dal resto della capigliatura, con un ciuffetto ribelle che non voleva saperne di stare al suo posto, che le cadeva sugli occhi e che lei rimandava su con la mano. E gli occhi, i suoi occhi…

Le mani, senza anelli, erano lisce, morbide allo sguardo, con le dita lunghe. Le unghie ben curate. Alta forse quanto lui, dal suo cappotto si intravedevano un maglione a collo alto e, in basso, dei jeans infilati dentro alti stivali di pelle marrone.

«Buonasera» disse lei.

«Buonasera» disse lui con il foglietto di carta ancora in mano.

«Posso sedermi qui?» domandò lei indicando, fra tutte, la sedia accanto a Fabri.

«Certo Patrizia» rispose lui.

Lei lo guardò con sguardo interrogativo. «Lei sa il mio nome, ci conosciamo?» chiese dopo un attimo di riflessivo silenzio.

«No» rispose Fabri.

Poi, un po’ imbarazzato, cercò di spiegare.

«La prego di scusarmi… il fatto è che ho trovato questo foglietto – glielo mostrò – ed ho provato a comporre il numero. Nello stesso momento lei è entrata rispondendo al telefono. Ho sentito la sua voce uscire dalla sua bocca e dal mio telefono, così… ho immaginato… che lei fosse quella Patrizia» concluse indicando il foglietto.

Patrizia rimase in silenzio per un po’.

«Accidenti, che coincidenza! Sembra la scena di un film.»

«Già. Se posso presentarmi io sono Fabri… mi chiamo Fabri.»

Si alzarono entrambi.

«Piacere» disse lei allungando la mano per stringere quella di lui, come si fa nelle presentazioni formali.

«Fabri!» riprese. «È il diminutivo di Fabrizio?»

«No, Fabri… solo Fabri» rispose timidamente lui.

«Ecco» continuò. «Anche lei…»

Non terminò la frase perché Patrizia lo interruppe.

«Fabri, possiamo darci del tu, altrimenti mi sento più grande di quella che sono.»

E rise, una risata di quelle che contagiano e mettono allegria.

«D’accordo Patrizia.»

«Stavi dicendo?»

«Sì, certo… stavo dicendo… anche lei, cioè… anche tu… In realtà mi sto chiedendo come fa una donna bella come te ad essere qui, in una lavanderia, nella sera dell’ultimo dell’anno. Potresti essere ovunque, ma non qui, in un bel vestito da sera, in compagnia di persone con le quali stai bene insieme o… in dolce compagnia.»

«Che cosa curiosa, mi stavo chiedendo la stessa cosa» disse mentre metteva i suoi panni nella lavatrice.

«Appunto» replicò lui.

«Mi stavo chiedendo la stessa cosa di te. Come fa un uomo bello come te a starsene qui ad aspettare la fine del lavaggio invece di essere da qualche parte con altre persone o… con una persona» disse chiudendo l’oblò e lanciando il programma di lavaggio, quello più lungo.

«Non ho una gran vita, Patrizia. Sono una persona sola. Tutto qua.»

«Anch’io.»

«Guardandoti, è un difficile da credere. Non ho mai avuto una ragazza.»

«Nemmeno io, cioè… intendo dire un ragazzo» e rise.

Poi sembrò voler cambiare discorso.

«L’ultimo dell’anno è uno di quei giorni che più mi restano antipatici. Sembra che una persona debba uscire per forza, divertirsi ad ogni costo.»

«Sarebbe bello divertirsi un po’, ogni tanto» aggiunse lui.

«Perché non lo facciamo qui?»

«In che senso, facciamo cosa… che cosa intendi dire?» domandò Fabri un po’ confuso.

«Possiamo divertirci qui.»

«In una lavanderia?»

«Perché no? Io ci sono… tu ci sei. Cosa ci manca?»

«Ma… Patrizia.»

«Sss! Basta parlare.»

Gli posò una mano sulla bocca. Portando l’indice dell’altra mano al naso, gli fece cenno di tacere.

Erano l’una di fronte all’altro. I loro sguardi si incontrarono e decisero di rimanere insieme.

«Fermo così, chiudi gli occhi.»

«Cosa stai…» cercò di domandare qualcosa tentando di schivare la mano che aveva sulla bocca.

«Sss! Chiudi gli occhi e ascolta la musica.»

Chiuse gli occhi.

Non c’era musica nella stanza, soltanto il rumore leggero delle lavatrici che svolgevano il loro lavoro.

Fabri allargò le braccia per chiedere a Patrizia a quale musica si riferisse.

Patrizia allora gli tolse la mano dalla bocca. Lui aprì gli occhi e la fissò. Patrizia gli prese una mano con entrambe le sue. L’alzò e la portò all’altezza del petto. Poi l’appoggiò sul suo cuore.

«Questa» disse.

Fabri rimase in ascolto per alcuni attimi.

«È meravigliosa! Tu… sei meravigliosa.»

Si guardarono. Tacquero. Si abbracciarono. Si baciarono.

Si baciarono a lungo, prima in piedi, poi, con una torsione e continuando a baciarsi, si misero seduti.

Restarono così a lungo, mentre intorno i cestelli delle lavatrici acceleravano e cominciavano a girare più forte, più forte, sempre più forte.

Le luci della stanza diventarono più calde, più calde, sempre più calde. Poi, d’un tratto, tutto divenne buio.

«Patrizia, io credo di…»

Fabri si sentì battere sulla spalla.

«Patrizia, devo dirti… Io ti…»

«Non vorrei deluderla, signore, ma non sono Patrizia.»

Fabri sobbalzò e aprì gli occhi. Un uomo con una divisa bluastra lo stava fissando.

Si guardarono, poi Fabri, un po’ stordito. si guardò intorno.

Le luci al neon erano tornate bianche e fredde. Il countdown era terminato, il cestello era fermo con i panni lavati fermi sul fondo.

«Mi spiace averla svegliata, ma devo chiudere. Per asciugare il suo bucato dovrà passare un’altra volta.»

«Ma perché, che ore sono?»

«Che ore sono? Deve aver fatto una bella dormita, signore! Siamo nell’anno nuovo! Su forza, faccia il bravo, raccolga le sue cose, che mia moglie mi aspetta. Se sono fortunato forse la trovo ancora sveglia.»

Fabri si tirò su e si mise seduto per bene.

Il foglietto con il numero di telefono era per terra. Forse gli era caduto mentre dormiva.

Lo raccolse e lo mise nella tasca dei pantaloni.

Radunò le sue cose, indossò il cappotto ed uscì.

L’uomo dalla divisa bluastra spense le luci e chiuse la lavanderia.

«Buon anno!» esclamò.

«Buon anno anche a lei e sua moglie» rispose Fabri.

La nebbia era più fitta di quando era partito da casa, c’era molta umidità e faceva più freddo. Andando verso casa, si fermò in corrispondenza di una panchina un po’ illuminata. La nebbia in quel punto era più rarefatta. Appoggiò il sacco sulla panchina, portò le mani alla tasca dei pantaloni ed estrasse il foglietto. Lo guardò a lungo, poi se lo girò tra le dita. Sul retro notò una scritta che non aveva visto in precedenza.

Allora lo espose il più possibile alla luce del lampione e lo lesse.

“A presto, amore mio!” c’era scritto.

Sulla sua faccia si formò una smorfia, forse l’espressione di un sogno svanito, forse un sorriso.

Riprese il suo sacco, ripose il foglietto nella tasca del cappotto e s’incamminò respirando il profumo della nebbia.

Era tardi, la strada era deserta, in lontananza si sentiva il rumore ovattato degli ultimi fuochi d’artificio.

Arrivò sotto casa.

Incuriosito da un rumore che sentiva sempre più vicino, Fabri si fermò e rimase in attesa. Dalla parte opposta della strada scorse la sagoma di una donna che stava avanzando adagio nella nebbia, annunciata dal suono ritmico dei tacchi che sbattevano sull’asfalto. 

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