“Roberto, sveglia! È l’ora” disse mia madre entrando in camera mia.
“È un pezzo che sono sveglio.”
La mattina del primo giorno di scuola mi svegliai prestissimo, perché dovevo prendere il treno e perché ero molto emozionato.
Il treno partiva dalla stazione di Pistoia alle 7,18.
Durante il viaggio per raggiungere Firenze provai a immaginare le facce dei nuovi compagni, dei nuovi professori, ma non riuscii ad evitare di pensare anche ai bei giorni trascorsi al Pacini, con un velo di tristezza e nostalgia.
Immerso nei miei pensieri e nelle mie speranze, arrivai a Firenze e subito mi precipitai a prendere l’autobus per raggiungere la nuova scuola. Avevo fatto quel tragitto in auto, con mio padre, un po’ di tempo prima. Ad ogni angolo di strada cercavo di vedere il nome della via, memorizzandolo, e stando attento al luogo in cui mi trovavo, per vedere se era quello in cui dovevo scendere.
L’autobus era pieno e parecchi ragazzi parlavano a gran voce, salutandosi e raccontandosi frettolosamente come avevano trascorso le vacanze. Era chiaro che molti di loro già si conoscevano e andavano a scuola insieme.
Dopo alcuni minuti arrivai a destinazione, scesi dall’autobus, feci alcuni passi e mi trovai davanti alla mia nuova scuola, l’Istituto Tecnico Commerciale “Galilei”, imponente nel suo colore chiaro.
L’orario di entrata era fissato per le 8,30. Ero in anticipo.
Davanti all’ingresso era tutto un via vai di ragazzi e di motorini: grida, urla, saluti, abbracci. Ma quanti alunni frequentavano quella scuola?
Di tutta quella gente non c’era una faccia conosciuta; non intravidi nemmeno quei pochi compagni dell’esame di Tedesco.
Appena le porte si aprirono, cercai la terza P1, la mia nuova classe.
Entrandovi mi accorsi che molti dei miei nuovi compagni si erano già sistemati. Erano stati più rapidi di me a trovarla.
Presi posto nella fila centrale, al secondo banco.
“È libero?” chiesi al ragazzo che vi era seduto.
“Sì” rispose. E mentre lo diceva agitava le gambe lateralmente, e poi verticalmente, tenendo i piedi sempre fermi a terra. Sembrava non avere fermezza. Quando fermava le gambe, cominciava a fare il tip tap sul banco con le dita.
“Mi chiamo Roberto” e gli tesi la mano.
“Io sono Giovanni” e ci stringemmo la mano.
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