sabato 29 gennaio 2011

Quattro passi... con Ben - Ventinovesima puntata

“Roberto, sveglia! È l’ora” disse mia madre entrando in camera mia.
“È un pezzo che sono sveglio.”
La mattina del primo giorno di scuola mi svegliai prestissimo, perché dovevo prendere il treno e perché ero molto emozionato.
Il treno partiva dalla stazione di Pistoia alle 7,18.
Durante il viaggio per raggiungere Firenze provai a immaginare le facce dei nuovi compagni, dei nuovi professori, ma non riuscii ad evitare di pensare anche ai bei giorni trascorsi al Pacini, con un velo di tristezza e nostalgia.
Immerso nei miei pensieri e nelle mie speranze, arrivai a Firenze e subito mi precipitai a prendere l’autobus per raggiungere la nuova scuola. Avevo fatto quel tragitto in auto, con mio padre, un po’ di tempo prima. Ad ogni angolo di strada cercavo di vedere il nome della via, memorizzandolo, e stando attento al luogo in cui mi trovavo, per vedere se era quello in cui dovevo scendere.
L’autobus era pieno e parecchi ragazzi parlavano a gran voce, salutandosi e raccontandosi frettolosamente come avevano trascorso le vacanze. Era chiaro che molti di loro già si conoscevano e andavano a scuola insieme.
Dopo alcuni minuti arrivai a destinazione, scesi dall’autobus, feci alcuni passi e mi trovai davanti alla mia nuova scuola, l’Istituto Tecnico Commerciale “Galilei”, imponente nel suo colore chiaro.
L’orario di entrata era fissato per le 8,30. Ero in anticipo.
Davanti all’ingresso era tutto un via vai di ragazzi e di motorini: grida, urla, saluti, abbracci. Ma quanti alunni frequentavano quella scuola?
Di tutta quella gente non c’era una faccia conosciuta; non intravidi nemmeno quei pochi compagni dell’esame di Tedesco.
Appena le porte si aprirono, cercai la terza P1, la mia nuova classe.
Entrandovi mi accorsi che molti dei miei nuovi compagni si erano già sistemati. Erano stati più rapidi di me a trovarla.
Presi posto nella fila centrale, al secondo banco.
“È libero?” chiesi al ragazzo che vi era seduto.
“Sì” rispose. E mentre lo diceva agitava le gambe lateralmente, e poi verticalmente, tenendo i piedi sempre fermi a terra. Sembrava non avere fermezza. Quando fermava le gambe, cominciava a fare il tip tap sul banco con le dita.
“Mi chiamo Roberto” e gli tesi la mano.
“Io sono Giovanni” e ci stringemmo la mano.

domenica 23 gennaio 2011

La misura del coraggio di Ines Desideri


Un altro libro ne "Le pagelle di Ben"

Quattro passi... con Ben - Ventottesima puntata

La mia vita stava per cambiare radicalmente.
L’estate che seguì la fine della seconda ragioneria fu una specie di anticamera per il mio futuro.
Di lì a poco tutto sarebbe cambiato: amicizie, studi, abitudini e, in un certo senso, anche il carattere.
Quell’estate dovevo studiare per dare l’esame di Tedesco per poter accedere al triennio per programmatori. Non avevo molta voglia di studiare d’estate, non mi era mai successo e per me fu una vera novità. Avevo preso accordi con la professoressa di lingue che avevo in seconda e in alcuni caldi pomeriggi di luglio mi recai a casa sua per studiare quella parte di programma che avrei dovuto conoscere per superare l’esame.
All’inizio di agosto andai al campeggio a Torre del Lago, da mia zia.
Anche mio fratello era in quel campeggio, ma con i suoi amici. Lui aveva finito gli studi, aveva dato l’esame di maturità e adesso si era concesso il meritato riposo andando al mare in compagnia.
Non ebbi molti contatti con quel gruppo, anzi, cercavo di stare lontano il più possibile, perché mio fratello Mauro gradiva avere la massima libertà di azione.
La differenza di età che c’era fra noi due non era molta, ma in quel periodo sembrava tanta.
Le mie giornate erano tutte uguali: la mattina andavo in spiaggia, prendevo il sole, facevo due passi lungo la riva e facevo il bagno. Alcune volte, qualcuno del gruppo di Mauro, mi diceva di andare a giocare con la palla in acqua con loro, ma io mi rifiutavo sempre, e dopo un po’ nessuno me lo chiese più.
Il pomeriggio, dopo un breve pisolino, ritornavo per alcune ore in spiaggia, ma non era un grande divertimento; da soli al mare, senza amici, era una vera noia.
Di sera uscivo dal campeggio per andare al cinema, ma spesso mi limitavo a passeggiare fino all’ora di rientrare.
Speravo di ritornare e trovare gli zii a letto, così non dovevo raccontare niente di ciò che avevo fatto, perché secondo loro un ragazzo al mare doveva divertirsi per forza, conoscere gente in qualsiasi modo, uscire e conoscere delle ragazze. E tutto questo a me non riusciva.
Non avevo il carattere di arrivare in un posto e dire: “Ciao, mi chiamo Roberto, e tu?”
Non sapevo “attaccare bottone” e di conseguenza avevo molte difficoltà a conoscere gente. Così me restavo in disparte, da solo.
Non durarono molto quelle vacanze, fortunatamente. Stetti al campeggio per pochi giorni, credo una settimana. Poi con la scusa che dovevo studiare Tedesco, me ne tornai a casa.
L’attesa per l’inizio dell’anno scolastico si faceva sempre più pressante.
Forse avevo preso troppo seriamente quella scelta, forse sentivo il peso della responsabilità di dover riuscire in ogni modo per non fare figuracce. Non avrei sopportato l’idea di dover tornare a scuola a Pistoia davanti alle prime difficoltà, come era già successo a qualche pistoiese. Sapevo che quel tipo di studi sarebbe stato duro, e via via che il primo giorno di scuola si avvicinava, la voglia di non andare a Firenze era sempre più forte.
Fu l’esame di Tedesco che mi fece riavere da quel torpore. Eravamo pochi alunni a doverlo sostenere, sette, al massimo otto. Lo superammo tutti. Non ci fu una graduatoria, non un voto. Nella lista dei risultati c’era scritto semplicemente “Esame superato”.
Parlando con quei compagni di sventura, mi resi conto che, oltre a quelli che ci ripensavano, ce ne erano anche tanti che andavano avanti. Le sezioni di quel corso erano passate da una a quattro nel giro di due anni, per cui tanti studenti cercavano di intraprendere quella strada.
Fino a quel momento avevo visto la cosa dal lato delle difficoltà che avrei potuto incontrare.
Adesso vedevo anche dal punto di vista di chi ha l’entusiasmo di mettercela tutta per andare avanti.
Me ne tornai a casa, con la speranza di trovare in terza alcuni dei compagni che avevo conosciuto durante l’esame.
Ormai ero carico. Avevo ritrovato gli stimoli, la voglia di fare bene e di farmi valere. La mia forza interiore ancora una volta non mi aveva tradito, e mi aveva dato la scossa giusta al momento giusto.
Mi gettai alle spalle i bei ricordi della seconda ragioneria e mi buttai a capo fitto in quella nuova avventura.

venerdì 21 gennaio 2011

C'è amore e... amore


non farti ingannare non fermarti mai
non chiudere gli occhi non chiuderli mai

sabato 15 gennaio 2011

Quattro passi... con Ben - Ventisettesima puntata

Di Maria Rosa ci sarebbe molto da raccontare, perché le nostre vite si sono intrecciate per circa nove anni, da quella gita all’Isola d’Elba.
Il modo in cui l’ho conosciuta, i nostri incontri a scuola fra un’ora e l’altra, le nostre telefonate, i nostri incontri in città o i miei viaggi in montagna, prima con il mio cinquantino e poi con la macchina, il momento in cui le comunicai che mi ero fidanzato con Cinzia, gli scambi di lettere durante il servizio di leva. Non siamo mai stati insieme, e credo che questo sia dipeso dal fatto che i nostri sentimenti non hanno viaggiato in maniera sincronizzata. Ho avuto la sensazione che lei provasse qualcosa per me quando io non provavo lo stesso sentimento per lei, e viceversa. Tuttavia ci siamo frequentati, da amici, a lungo, passando anche attraverso periodi di incomprensioni e malintesi.
Io, con lei, ho avuto anche molte cadute di stile, delle quali mi sono accorto quando ormai era troppo tardi. Poi il telegramma con il quale mi fece gli auguri in occasione del mio matrimonio segnò la fine di ogni comunicazione.

Ancora oggi penso qualche volta a lei. Mi piacerebbe sapere come sta, se è sposata, cosa fa, dove abita. Ma sono tutte domande che rimangono senza risposta.
Di lei, oltre ai ricordi, conservo tutte le lettere che mi ha scritto, chiuse in una scatola insieme alle mie cose del periodo del servizio di leva.
Mi piacerebbe aprire quella scatola e mettermi lì, con calma, a rileggere tutto quanto.
Ma mi rendo conto che la velocità della vita attuale rende difficile anche solo trovare il tempo per farlo. E così rimando, rimando sempre a un periodo successivo. E questo periodo non arriva mai.

“Cara Maria Rosa, spero che tu abbia trovato una persona che si sia presa cura di te, che ti ami e che ti stia rendendo felice. Spero anche che tu abbia potuto perdonarmi per tutte le volte che mi sono comportato nel modo che non meritavi.
Abbiamo passato insieme un lungo periodo della nostra vita, poi ci siamo persi, forse nel tentativo di cercare qualcosa di più grande e d’importante nel nostro rapporto, senza renderci conto che l’amicizia che ci legava era già la cosa più bella che potessimo desiderare.”


Ho voluto riassumere così il lungo capitolo scritto in origine. Ho riportato integralmente solo l’ultima parte. Ho incontrato nuovamente Maria Rosa lo scorso anno, virtualmente su Facebook.
Successivamente l’ho vista sulle tribune di una piscina durante una gara di nuoto.
Non ho avuto modo di parlarci.

domenica 9 gennaio 2011

Così, per caso

Quante cose avvengono per caso?
O così almeno sembra, perché solo dopo un po' di tempo viene fuori che... "per caso" non lo fosse affatto.
Nel recente passato ho spesso pensato a queste casualità, a scelte fatte che poi hanno assunto un significato a posteriori, facendo pensare che, invece, niente viene per caso, e che tutto sembra avere una logica, che a noi spesso sfugge.
Oggi, una frase letta casualmente sulla pagina di una agenda ormai passata, mentre stavo annotando alcuni titoli di canzoni, mi ha fatto ripensare a recenti avvenimenti riguardanti l'amicizia:

Abbi la tua piccola cerchia di amici, ma che questa cerchia non sia una prigione.
(R. Claude)

Così, per caso.

Quattro passi... con Ben - Ventiseiesima puntata

L’anno scolastico stava terminando, le ultime fatiche e gli ultimi compiti ci attendevano.
I professori si davano un gran daffare per completare i programmi, mentre noi alunni pensavamo già alle vacanze. Prima, però, c’era da organizzare il pranzo di fine anno, che era un rituale a cui nessuno voleva rinunciare. Mirella ebbe un’idea geniale, degna di lei e della sua intelligenza superiore.
“In Sant’Andrea, la mia parrocchia, c’è uno stanzone molto grande, dietro la chiesa. È attrezzato, con tavoli lunghi e sedie, inoltre c’è anche la cucina. Perché non lo facciamo lì il pranzo e cuciniamo tutto da noi? Conosco il parroco e sono sicura che ci darà la stanza.”
L’idea piacque a tutta la classe. Così l’ultimo giorno di scuola, dopo i saluti di rito, ci ritrovammo tutti alla chiesa e cominciammo a preparare il pranzo. Ognuno di noi aveva portato qualcosa: acqua, bibite, crostini, piatti, bicchieri, e così via. Lì cucinammo la pasta e preparammo i secondi. Cose semplici, ma fatte in quel contesto sembravano veramente speciali. Ognuno di noi dette il massimo: le ragazze sembravano tutte cuoche professioniste, e con i loro grembiuli addosso sembravano delle vere donne. Noi maschi facevamo invece le cose di fatica, come preparare la tavola, sistemare le sedie, apparecchiare, preparare le bottiglie. Gigi, abituato come era a fare il cameriere alla pizzeria dei Ferrovieri, mostrò tutto il suo valore in quei frangenti e ci insegnò anche a sistemare le posate nel modo corretto.
Fu molto bello. Anche quella giornata terminò in gran fretta. Tutto quell’anno terminò velocemente, mentre avrei voluto che fosse il più lungo possibile.
Dei professori ho un ricordo particolare della Dora, l’insegnante di calcolo computistico. Lei era informale, simpaticissima, voleva che le dessimo del “tu”, era molto brava e ci insegnò molto.
Il giorno dei risultati arrivò. Non ci furono grandi sorprese. Ognuno di noi ottenne ciò che si aspettava, compresi quelli che sapevano di essere bocciati. Io fui, ancora una volta, il primo della classe, con la media del sette e mezzo. Solo Mirella tenne il mio passo, e fu seconda solo perché io presi un voto migliore del suo a Educazione Fisica. Praticamente avevamo la stessa pagella.
Quel giorno non riuscii a rivedere tutti i compagni di classe, perché arrivammo e ripartimmo alla spicciolata, per cui non riuscii a salutare tutti come avrei voluto.
Pieni di entusiasmo per l’anno che era terminato e per le vacanze che stavano iniziando, ci salutammo con quei modi di dire che si usano nella maggior parte dei casi senza riflettere, ad esempio:
“Ti saluto, tanto poi ci vediamo” oppure “Tanto poi ci sentiamo.”
Con la maggior parte di loro si disse in quel modo, con la maggior parte di loro non mi rividi, né mi risentii.

giovedì 6 gennaio 2011

Quattro passi... con Ben - Venticinquesima puntata

Aria di primavera, aria di gita. Dopo la fregatura dell’anno precedente, feci di tutto per puntare su un’escursione di un giorno soltanto. E così fu. La meta era l’Isola d’Elba, la terra del nemico che mi aveva tenuto lontano da Sabrina.
Partimmo al mattino, molto presto, per prendere il traghetto a Piombino. Andammo insieme alla prima “B”. In pullman mi ritrovai accanto una ragazza della prima, la Rossa. Era alta, più di me (bella forza!), magra, con i capelli rossi e la faccia lentigginosa. Io speravo di stare vicino a Sandra e a Paola. Peccato. La Rossa, però, fu una vera rivelazione. Compresi che lei aveva scelto quel posto di proposito.
“Da un po’ di tempo ti ho notato” disse.
“Veramente?” risposi incredulo. Mi trovai a camminare su un terreno inesplorato, perché era la prima volta che una ragazza mostrava quel tipo di interesse nei miei confronti, per giunta una ragazza che avevo appena intravisto per i corridoi solo perché la sua aula era confinante con la mia. E così mi ritrovai la sua testa appoggiata alla mia spalla, con i lunghi capelli rossi che toccavano nella mia guancia. Fu per me una scossa. Stette così per vari minuti. Poi si voltò a guardarmi, come se si aspettasse qualcosa che invece tardava ad arrivare. La fissai negli occhi e le misi il braccio intorno al collo abbracciandola. Abbozzò un sorriso di soddisfazione. Ma io mi sentivo a disagio, in primo luogo perché non sapevo come avrei dovuto comportarmi con lei, la prima ragazza a farmi la corte in modo così diretto, e poi perché lei non mi piaceva, e questo per me era più che sufficiente per non provarci nemmeno. Così le detti un bacino sulla parte superiore della testa, le tolsi il braccio di dosso e mi ritrassi.
“Ascolta” le dissi. “A me piace un’altra che è su questo pullman.”
Mentii, chiaramente. Ma pensavo che così dicendo me la sarei tolta di mezzo. E invece mi restò vicina per tutta la giornata.
Arrivati all’Elba scendemmo dal traghetto e cominciammo a girare l’isola. Io intanto cercavo di stare insieme a Sandra e a Paola, con le quali mi divertivo molto, anche per dare un fondo di verità a quello che avevo detto alla Rossa. Ma lei continuava a starmi alle costole. Era una situazione buffa: mai nessuna ragazza mi si era aggirata intorno ed ora capitava con una che non mi piaceva. Che sfortuna!
Stetti tutto il giorno insieme a quelle tre e non ho il minimo ricordo di cosa fecero gli altri. Al ritorno conobbi un’altra ragazza della prima, Maria Rosa.
La gita, come tutte le cose belle, terminò rapidamente e verso l’ora di cena eravamo tutti di nuovo a casa.

martedì 4 gennaio 2011

Quattro passi... con Ben - Ventiquattresima puntata

“Martina” le dissi un giorno scherzando. “Ti devo confessare una cosa.”
“Sono tutta orecchie” rispose.
Le presi la mano sinistra e le dissi: “Mi sono innamorato di te, lascia il tuo ragazzo e mettiamoci insieme. Vedrai staremo bene noi due. Andiamo d’accordo e abbiamo molte cose in comune, esclusa la discoteca. Che ne pensi? Non voglio che tu mi dia una risposta affrettata, posso aspettare anche… dieci minuti.”
Lei rispose: “Non potrei mai mettermi con un compagno di classe.”
“Lo so. Per questo vado a Firenze l’anno prossimo. E, alla prima forca che farò, verrò a trovarvi qui in classe e ti chiederò di metterti insieme a me. A quel punto non avrai scuse.”
Ci mettemmo a ridere tutti e due per alcuni secondi, poi, di nuovo seria, mi chiese:
“Roberto, sei proprio sicuro di voler andare là?”
“Per la verità non sono più tanto sicuro. È un salto nel buio. Qui mi trovo bene, lo sai. Però voglio andare avanti con la decisione che ho preso, poi il tempo dirà ciò che sarebbe stato meglio per me.”
“Mi mancherai” rispose lei. “Sei il compagno di banco ideale…”
“Per copiare!” la interruppi. “A luglio non ti ricorderai più di me.”
Mi spinse all’indietro con entrambe le mani, come a volermi dire che non sarebbe stato vero.
Purtroppo avevo ragione io. La rividi solamente molti anni dopo e non la sentii più per telefono.