Quell’anno, al Nespolo, fu organizzato un torneo di tennis.
Si giocava su una pista di pattinaggio, con il pavimento fatto di mattonelle.
Nel singolare fui eliminato nei quarti; nel doppio ero in coppia con Gianluca, e facemmo un torneo bellissimo.
Superammo i primi turni senza problemi ed approdammo in semifinale; ad aspettarci c’era la coppia in cui militava mio fratello Mauro, insieme a Roberto, un altro ragazzo del paese. Per i valori espressi quella era la vera finale. E per me si trattava di un derby in famiglia.
La sera della semifinale giocammo magistralmente, e dopo una partita avvincente, io e Gianluca vincemmo ed andammo in finale, dove ad attenderci c’era una coppia formata da due ragazzi contro i quali avevamo sempre vinto in precedenza.
Sembrava una formalità ed invece non fu così.
La partita iniziò nel migliore dei modi e vincemmo senza problemi il primo set: 6-2.
Sembrava tutto facile ed invece cominciammo a sbagliare le cose più semplici, soprattutto Gianluca,
andato in piena crisi.
Correvo anche per lui e cominciai ad accusare la stanchezza, oltre a un certo nervosismo.
Perdemmo il secondo set: 7 – 5.
Il terzo set fu equilibrato fino a quando mi ressero le gambe, poi capitolammo. Gianluca era in campo fisicamente, ma non mentalmente e non combinava niente di buono; era andato completamente in bambola e tutti i miei tentativi per scuoterlo furono vani. E pensare che lui era più grande di me!
Perdemmo malamente quella partita.
Non riuscii a digerire quella sconfitta, perché eravamo effettivamente più bravi degli altri, ma non riuscimmo a vincere. Quella notte non riuscii a chiudere occhio.
La mattina seguente, in autobus, Cecilia si accorse subito che qualcosa non andava ed indagò:
“Che brutta cera che hai stamani. Che cosa hai combinato stanotte?”
“Niente di particolare. Ho dormito poco, anzi, non ho dormito affatto.”
“Perché?”
“Sono andato a donne con una brasiliana!” risposi.
Si mise a ridere, perché sapeva che non era vero.
Poi continuai:
“Ho perso una partita incredibile” e così le raccontai tutto.
E lei:
“Era il torneo di Wimbledon?”
“No.”
“Roland Garros?”
“No.”
“Internazionali di Roma?”
“No.”
“E allora, che diavolo di torneo era?” domandò di nuovo.
“Del Nespolo!” risposi.
“Ma vai a fare una girata, il torneo del Nespolo, chissà cosa mi credevo!” e così sdrammatizzando e enfatizzando quelle sue espressioni, riuscì a farmi capire che, in fondo in fondo, non avevo perso niente di importante, e non valeva la pena di prendersela così tanto.
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