martedì 3 gennaio 2012

Quattro passi... con Ben - Cinquantanovesima puntata

Fummo accompagnati alla stazione di Chieti. Lì c’era un treno speciale che avrebbe portato tutti quanti nei rispettivi luoghi di destinazione, attraversando l’Italia da sud a nord.
Anche quella giornata, inutile dirlo, era incandescente. La temperatura era alta fuori, ma soprattutto sul treno, ed il fatto di essere vestiti con la divisa da festa, cioè in pantaloni, giacca, camicia e cravatta, peggiorava ancora di più le cose. In breve tempo eravamo tutti bagnati dal sudore.
Ad ogni stazione in cui il treno si fermava, urlavamo ai venditori ambulanti di venire a darci delle bottiglie d’acqua, perché non potevamo scendere.
Di fermata in fermata arrivammo alla stazione di Brescia verso le 21,30, forse un po’ più tardi, perché era già buio.
Eravamo stanchi, affamati, bagnati di sudore, ma dovevamo aspettare ancora un po’ prima di arrivare alla nuova caserma. Ognuno di noi prese il proprio zaino e poi fummo accompagnati fuori dalla stazione dove ci attendeva un piccolo pullman dell’ esercito.
Scese un sottotenente che fece l’appello, invitandoci  a salire velocemente, perché c’era ancora da fare un tragitto di strada di circa mezzora.
Non si arrivava mai.
Finalmente partimmo. Pochi chilometri, il tempo di uscire dal centro di Brescia, e tutto divenne scuro. Avevamo preso una strada completamente immersa nel buio, poche case e tutta campagna. Sembrava di essere entrati in un tunnel senza impianto di illuminazione.
Eravamo un po’ frastornati, nessuno aveva voglia di parlare. L’unica cosa che si sentiva dire era sempre la stessa, detta a più riprese da qualcuno:
“Ma dove stiamo andando?”
Cercavamo di guardare fuori dai finestrini, oltrepassando il riflesso della nostra faccia nel vetro, tentando di intravedere qualcosa, ma era tutto inutile.
Poi ad un certo punto, dopo essere sempre andati per quella lunga strada dritta, incontrammo un paese e poco dopo uscimmo dalla provinciale per imboccare una strada molto stretta, con curve a novanta gradi. L’autista del pullman dovette rallentare l’andatura per non rischiare di finire fuori strada.
Le nostre facce erano ormai diventate dei punti interrogativi. Ci guardavamo l’un con l’altro domandandoci con gli occhi: “Ma dove ci portano?”
“Quanto manca?”
“Ormai manca poco, ma non preoccupatevi, vedrete che accoglienza!” rispose il sottotenente.
Cominciai a pensare alle parole che mi aveva detto il militare amico di Amedeo quando ero a Chieti: “Montichiari è più lontano, ma si dice che lì si stia meglio.”
Ma, con tutto lo sforzo che potessi fare, non riuscivo a immaginare a cosa si riferiva quel “meglio”.
Poi, all’improvviso, apparve una luce. Ci fermammo apparentemente in mezzo alla campagna di fronte ad un cancello di ferro. Un faro ci puntò contro illuminandoci ed una persona arrivò ad aprire.
“Ci siamo, siamo a casa!” urlò con grande entusiasmo il sottotenente, con tono goliardico.
Si intravedeva nel buio l’ombra di un capannone. Il faro ci seguì ancora per pochi metri.
Costeggiamo quel capannone, ma non riuscivo ad intravedere niente che potesse assomigliare ad una caserma. Ancora un cancello. Questa volta fu il sottotenente ad aprire e poi, immediatamente dopo aver fatto passare il pullman, a richiuderlo. Dopo pochi metri, ancora un altro, stessa manovra.
“Vai, vai, corri!” disse risalendo all’autista.
Questi accelerò, e avvicinandosi ad un edificio cominciò a suonare il clacson.
Doveva essere il segnale per “l’accoglienza”.
Il pullman entrò dentro a questo edificio.
“Burbe” (così venivano chiamati i nuovi arrivati) disse il sottotenente. “Burbe, questa è la nostra caserma, noi la chiamiamo fortino.”
E infatti aveva proprio quell’aspetto.
Era a forma rettangolare, con le camerate disposte tutte intorno ad un cortile, al primo piano, mentre al piano terra c’era qualcos’altro che al momento non riuscivo ad identificare.
Fra i due piani c’era una terrazza che girava ininterrottamente per tutto il cortile, a forma rettangolare. E tutti erano lì in piedi ad urlarci:
“Burbe, dovete impazzire!” gridava uno.
“Morire, con più di 300 giorni all’alba!” gridava un altro.
“Guarda la stecca del nonno, burba!” ancora un altro.
Eravamo ancora seduti dentro, guardandoci intorno per capire che aria tirava lì fuori, ma nessuno osava scendere per primo. Dai nostri seggiolini guardavamo le persone urlanti sulla terrazza, girando la testa su tutti lati.
Quella era “l’accoglienza”. La caserma era tutta lì.
Volevano intimorisci con quelle urla, far valere l’anzianità e far capire chi contava di più.
“Oh, volete scendere burbacce?!” urlò il sottotenente. “O vi siete già cagati sotto, eh?”
Presi lo zaino e fui il primo a scendere, in mezzo al cortile, proprio nel mezzo, come nel cerchio del centrocampo di uno stadio.
“Mutismo e rassegnazione!” gridò uno.
“Dovete dormire preoccupati, avete capito, aah?” questo era in siciliano doc.
Una volta scesi, ci fecero entrare direttamente nel ristorante, mentre il pullman ripartì.

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