24 giugno del 1986, martedì.
La
sera precedente facemmo un po’ di bisboccia, ma senza strafare, come era nostra
abitudine. Poi andammo a dormire, anche se sarebbe meglio dire che cercammo di
dormire, perché l’emozione per il congedo era talmente alta che nessuno di noi
del “Quinto 85” chiuse occhio quella notte.
Così
“l’alba” ci trovò già svegli.
Io
stavo sul letto con le braccia incrociate dietro la testa, appoggiate sul
cuscino, con lo sguardo rivolto verso il soffitto, ma senza vederlo. I miei
pensieri stavano ripercorrendo quell’anno incredibile: il viaggio in treno
verso Chieti, il giuramento, il viaggio verso Montichiari, le nuove amicizie, i
congedi dei vecchi commilitoni a me cari, come il Killer, il Corsi, il Cini, il
grande Leardo ed altri ancora con i quali avevo percorso un pezzo di strada
insieme.
Ripercorrevo
i giorni delle licenze, la gita a Sirmione con i miei familiari e tanti, tanti
altri pensieri mi affollavano la mente. Uno di questi che cercavo di tenere
lontano, ancora per un po’, riguardava il mio futuro una volta uscito dalla
caserma, con la ricerca del lavoro in testa a tutto. Ma ancora non volevo
prendere in considerazione questa idea.
Era
così tutto chiaro ciò che avevo impresso nella mente di quel periodo.
Poi
fui bruscamente distolto da quei pensieri dalla sveglia che suonò.
Per
molti era un giorno come un altro, mentre per me e gli altri del mio scaglione
era l’ultimo giorno.
Mi
alzai e già alcune grida risuonavano per i corridoi:
“È
finita! Vado a casa!”
Era
la voce di Scaravaglione, piemontese.
“Oggi
è l’alba! Cof, cof” gridò Cosimo, di Milano, che accompagnava ogni sua frase
con due colpi di tosse, frutto delle tantissime sigarette che fumava.
In
camerata, con Giorgio e Federico cominciammo a prepararci, con calma, con quel sorriso
sulle labbra di chi sta per fare una cosa molto volentieri.
Ci
vestimmo di tutto punto, in divisa, pronti per andare a ricevere il congedo
dalle mani del Tenente Colonnello Gelato.
Fummo
accolti dal comandante che ebbe parole di elogio per noi, per il nostro modo di
aver trascorso quell’anno, per l’impegno espresso, per l’educazione dimostrata
e per il rispetto nei confronti dei più giovani.
Tutte
parole che ci inorgoglirono perché dimostravano che
il nostro operato non era passato inosservato ed era stato apprezzato.
Alla
fine del lungo discorso, e dopo la consegna del congedo, aggiunse:
“Comodi
ragazzi. Adesso vi parlo da uomo e non da comandante. Siete stati dei ragazzi
bravi, prima che bravi soldati. Sarà molto difficile dimenticare il
meraviglioso “Quinto 85”. Vi auguro tanta fortuna e che il futuro vi riservi
tante soddisfazioni, perché se continuate così ve le meritate.”
Poi
strinse la mano a tutti e ci lasciò andare.