mercoledì 2 novembre 2011

Fango

Primo novembre, giorno di festa, ma non per tutti.
La sveglia suona alle 5.00. Fuori è buio pesto, il ritrovo è fissato per le 5,30.
Esco con il mio zaino sulla spalla e mi avvio a piedi.
Siamo sette, un furgone pieno di attrezzi, due fuoristrada di cui uno adibito ad ambulanza.
Partiamo, alle sei dobbiamo incontrarci al casello dell’autostrada con due squadre provenienti da altre località. Ci siamo, entriamo in autostrada e formiamo una colonna, direzione Aulla.
Durante il percorso parliamo e scherziamo, anche da un mezzo all’altro, grazie alla radio.
Finalmente un po’ di luce, tanta quanto serve per far intravedere una bella giornata, appena velata.
Alle 8,00 arriviamo puntuali sul posto. Usciamo dall’autostrada ad Aulla, uscita riservata solo ai mezzi di soccorso. Il tempo sembra avere un conto in sospeso con quel posto. Fino a pochi chilometri prima era tutto sereno, adesso una nebbia sinistra avvolge l’intero paesaggio.
Il marrone del fango colora le strade, le piazze, i giardini. Ci sono mucchi di cose ad ogni angolo di strada: sedie, mobili, materassi, divani, carcasse di auto. Si intravede l’interno degli edifici al piano terra: vetri rotti, pavimenti marroni.
Una città devastata, una città fantasma. Non si vedono civili a giro, o almeno non sembrano tali. Le persone che incontriamo sembrano essere lì per aiutare nei soccorsi: vigili del fuoco, personale dell’esercito, protezione civile, persone, forse volontari, con stivali di gomma e giubbotti ad alta visibilità. Le strade sono percorse solo da mezzi di soccorso, che sono dappertutto. Sembra una città sotto assedio.
Andiamo al centro di smistamento volontari, un centro sportivo che conosco per averci accompagnato mia figlia, in passato, per le gare di nuoto. La palestra adesso è adibita a dormitorio per i volontari. Compiliamo la documentazione e veniamo inviati al palazzo comunale, dove c’è la centrale operativa. Il nostro capo sale e noi cominciamo a cambiarci, ci mettiamo gli stivali, tiriamo fuori caschetti e guanti, l’attrezzatura è tutta sui mezzi.
Paradossale: sembra che non ci sia lavoro per noi, ma il nostro capo attende, insiste, e otteniamo un incarico.
Ci presentiamo nel luogo indicato, sono quasi le 10,00. Il responsabile ci illustra la situazione. Le cantine di un palazzo enorme, abitato da cento famiglie, devono essere svuotate dal fango e dall’acqua. Sotto ci sono già un centinaio di volontari al lavoro, ma è molto buio, non si vede quasi niente. Noi abbiamo le luci. Andiamo giù a vedere. Entriamo, con cautela per non cadere nel fango che arriva quasi all’altezza degli stivali che a fatica riusciamo a sollevare per fare un altro passo. Sotto è come un labirinto, un ambiente enorme. Si sentono urla impartire comandi, il rumore dei mezzi meccanici che entrano ed escono con le pale piene di oggetti e fango.
Abbiamo individuato dove mettere le luci. Usciamo e prepariamo l’attrezzatura, poi alcuni di noi si immergono nuovamente nel sottosuolo, mentre altri restano fuori ad azionare il generatore. Troviamo una fessura nelle grate di ferro per far passare i cavi, alcuni minuti di lavoro ed un corridoio viene illuminato: è lunghissimo. Ci portiamo dall’altro lato e facciamo altrettanto: anche lì portiamo la luce, si può lavorare. Adesso anche noi possiamo spalare insieme agli altri. Si suda, si fatica, la pala comincia a scivolare fra le mani e a piegarsi di lato.
Arriviamo alle 12,30, decidiamo di fare una pausa, a turno. Alcuni vanno a mangiare, in due rimaniamo sul posto. Ho la sensazione di non arrivare a far niente. Ne parlo con i miei compagni, sostenendo che ci sono troppi tempi morti. Solamente per entrare e uscire dal sottosuolo occorrono diversi minuti.
In quel frangente arriva un responsabile e ci chiede se abbiamo una pompa sommersa. Sì, l’abbiamo, e la vasca della centrale termica diventa nostra. Dentro, fuori, dentro, fuori, nel giro di venti minuti la pompa è in azione per svuotare quell’ambiente.
Siamo di nuovi tutti insieme, più tardi alcuni andranno a svuotare la cantina di un altro palazzo, un po’ più piccolo.
Siamo coperti di fango, bagnati, sporchi, e anche un po’ affaticati.
Io continuo ad avere la sensazione di non aver fatto niente, di aver perso un sacco di tempo: troppi tempi morti, continuo a dire a chi cerca di farmi capire che abbiamo fatto quello che ci è stato richiesto.
Il buio incombe e la gente continua a lavorare nel sottosuolo, fuori i mezzi meccanici cercano di aspirare il fango dall’alto con tubi dal diametro esagerato. La nostra pompa nel frattempo si è bruciata, ha vinto contro l’acqua, ma contro il fango non ce l’ha fatta.
Torniamo per l’ennesima volta giù, bisogna smontare le nostre apparecchiature prima che sia buio. I punti luce adesso non servono più, quelle zone sono state ripulite alla meglio e la gente si è portata in un’altra ala delle cantine. Le nostre pale non ci sono più, ma non ci dispiace, chi le ha prese lo ha fatto per bisogno.
Siamo quasi pronti. Uno di noi apre il furgone, si siede sul paraurti e si addormenta così. Lo lasciamo dormire per un po’, poi è ora di tornare al centro dei volontari per il cosiddetto “scorporo”, per avvertire che la nostra squadra se ne va.
Dopo una lunga attesa, dovuta ad una lunga fila di persone che sono lì per lo stesso motivo, riprendiamo la strada di casa.
Siamo stanchi, ma non abbiamo perso la voglia di parlare e di scherzare fra noi. Lo facciamo anche da un mezzo all’altro, grazie alla radio.
Io sono ancora convinto di non aver fatto granché, ma forse hanno ragione i miei compagni: abbiamo dato luce dove serviva, abbiamo svuotato acqua dove serviva, abbiamo aiutato a spalare dove serviva.
Il pensiero non può che andare a quelle persone che oggi ci è parso di non aver visto, in una città sventrata, in una città fantasma, in una città dipinta con un solo colore: quello del fango.
Siamo arrivati a casa, è tardi. 
Termina così il primo novembre, giorno di festa, ma non per tutti.

3 commenti:

  1. Bella testimonianza di solidarietà, caro Ben. Grazie.
    Troppe parole di commento, in casi come questo, sarebbero inopportune.
    Ciao

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  2. Grazie a te, Ines,
    E oggi ancora immagini di devastazioni. Città diversa, stessa storia.

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  3. Ho visto, Ben, ho visto.
    Immagini strazianti che dovrebbero invitarci a riflettere.
    Ciao

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