Che onore e che responsabilità, caro Ben! Accetto volentieri e ti ringrazio. Noi che eravamo a casa e aspettavamo LA telefonata dei nostri "soldatini": erano i figli o - nel mio caso - i fratelli partiti per il servizio di leva, spesso destinati in città lontane, come ci sembravano in quegli anni buona parte delle città del Nord. L'attesa iniziava a una certa ora della sera, normalmente dopo cena. In casa ci creava una certa tensione: era il tempo dell'attesa, tutto rivolto al telefono che speravamo squillasse, finalmente. Erano quei telefoni neri fissati a una parete di casa: non belli, a pensarci oggi, ma lo erano per noi in quegli anni. Erano il "filo" che ci univa alle persone care ma distanti; erano un incontro che si accontentava di una voce che veniva da molto lontano, l'unico modo per accorciare le distanze almeno per pochi minuti. Sentire quella voce era gioia e tenerezza e tristezza nello stesso momento: grandi emozioni, spesso tra loro contrastanti, ma di un'intensità profonda....
Io invece vorrei raccontare una telefonata fatta ai tempi della scuola. Telefonai a casa e, come facevo quando avevo voglia di fare il bischero (cioè lo sciocchino), chiamai mia madre per il suo cognome da nubile (supponiamo Ben). E le cose andarono più o meno così:
- Pronto, parlo con la signoara Ben? - Sì, chi parla? - Sono Roberto. - Roberto, da dove chiami? - Sono alla stazione! - Alla stazione? Cosa ci fai alla stazione? (Erano le 11,30 circa) - A scuola abbiamo fatto sciopero e allora ho preso il primo treno per tornare a casa. Ti volevo dire che a pranzo oggi ci sono. - Sciopero? Scuola? O Roberto, ma che hai fatto? Non sei andato a lavorare? - A lavorare? Poi, dopo un attimo di esitazione, dico: - Ma chi parla? - Gabriella Ben. - Mi scusi signora... ho sbagliato numero. Sì, perchè mia madre non si chiamava Gabriella. Però, quante coincidenze: sbagliare numero e trovare una signora con lo stesso cognome di mia madre con un figlio di nome Roberto.
Che onore e che responsabilità, caro Ben! Accetto volentieri e ti ringrazio.
RispondiEliminaNoi che eravamo a casa e aspettavamo LA telefonata dei nostri "soldatini": erano i figli o - nel mio caso - i fratelli partiti per il servizio di leva, spesso destinati in città lontane, come ci sembravano in quegli anni buona parte delle città del Nord.
L'attesa iniziava a una certa ora della sera, normalmente dopo cena.
In casa ci creava una certa tensione: era il tempo dell'attesa, tutto rivolto al telefono che speravamo squillasse, finalmente. Erano quei telefoni neri fissati a una parete di casa: non belli, a pensarci oggi, ma lo erano per noi in quegli anni. Erano il "filo" che ci univa alle persone care ma distanti; erano un incontro che si accontentava di una voce che veniva da molto lontano, l'unico modo per accorciare le distanze almeno per pochi minuti.
Sentire quella voce era gioia e tenerezza e tristezza nello stesso momento: grandi emozioni, spesso tra loro contrastanti, ma di un'intensità profonda....
Io invece vorrei raccontare una telefonata fatta ai tempi della scuola. Telefonai a casa e, come facevo quando avevo voglia di fare il bischero (cioè lo sciocchino), chiamai mia madre per il suo cognome da nubile (supponiamo Ben).
RispondiEliminaE le cose andarono più o meno così:
- Pronto, parlo con la signoara Ben?
- Sì, chi parla?
- Sono Roberto.
- Roberto, da dove chiami?
- Sono alla stazione!
- Alla stazione? Cosa ci fai alla stazione?
(Erano le 11,30 circa)
- A scuola abbiamo fatto sciopero e allora ho preso il primo treno per tornare a casa. Ti volevo dire che a pranzo oggi ci sono.
- Sciopero? Scuola? O Roberto, ma che hai fatto? Non sei andato a lavorare?
- A lavorare?
Poi, dopo un attimo di esitazione, dico:
- Ma chi parla?
- Gabriella Ben.
- Mi scusi signora... ho sbagliato numero.
Sì, perchè mia madre non si chiamava Gabriella.
Però, quante coincidenze: sbagliare numero e trovare una signora con lo stesso cognome di mia madre con un figlio di nome Roberto.