Con il passare dei mesi e con l’arrivo dei nuovi scaglioni, il numero dei toscani era aumentato notevolmente. Avevamo formato una specie di comunità all’interno della caserma, finendo per occupare, dopo alcuni spostamenti, la quasi totalità della terza camerata, che era la più grande.
Dopo i raccomandati lombardi, rappresentavamo la regione più numerosa, i nostri rapporti erano ottimi e riuscimmo a formare un bel gruppetto unito. Io, Federico, poi i fiorentini Chilleri, detto Killer, il Benvenuti, detto lo Squalo per il suo naso che sembrava la famosa pinna del pesce, il Donnini, detto Marino Groovy, perché ogni volta che rientrava e doveva rimettere i suoi vestiti nell’armadietto toglieva tutto quanto di dentro e lo appendeva fuori alle brande, rendendole simili all’allora famoso negozio di Firenze, Marino Groovy appunto. Poi c’era l’aretino Leardo, un gigante dall’animo gentile e generoso, e il Corsi di Prato. Questo ero il nucleo storico al quale si univano anche altri toscani, ma che non riuscirono a fare breccia in noi, spesso perché avevano dei modi diversi di affrontare il percorso cui eravamo obbligati. E per sfuggire alla noia alcune volte si rifugiavano in corposi spinelli, soprattutto dopo aver fatto rifornimento in occasione delle licenze.
Noi invece, quando tornavamo a casa, facevamo la spesa di ben altre cose, come il vinsanto, il salame e qualcos’altro di commestibile dal piccolo ingombro. Poi ci riunivamo in camerata tutti insieme, per quanto compatibile con i turni di guardia, e ci facevamo una grande mangiata.
La nostra camerata aveva raggiunto un grande livello di stabilità ed unità. Oltre a noi si aggiunse Giorgio, mentre Fabrizio di Iesi era lì sin dall’inizio, poi con gli scaglioni successivi arrivarono anche il Mancini, dottore di Roma e Maurizio, anche lui di Firenze.
Eravamo tutti convinti che quell’anno in fondo fosse inutile, ma dovendolo comunque passare lì dentro, era nostra intenzione passarlo nel migliore dei modi, restando noi stessi e non facendoci deviare dall’astrattismo e dai viaggi artificiali. Così, ad esempio, la tristezza di un rientro dalla licenza si trasformava in allegria non appena arrivati in caserma, perché qualcuno stava aspettando il rientro per poter festeggiare con salame e vinsanto.
E così, magari uno arrivava in caserma con il morale un po’ giù, perché aveva da poche ore lasciato la fidanzata e la famiglia, ma subito veniva accolto dagli altri.
“Oh, finalmente sei arrivato. Hai fatto tardi, hai incontrato traffico?”
“No, tutto bene.”
“E la roba ce l’hai?”
“Come no!”
“Dai, ragazzi, tutti qui, si mangia!”
E il salame ed il vinsanto facevano il loro ingresso sulla scena!
Quello era il nostro modo di divertirci, più che andare a cercare l’avventura o la bravata, di cui magari pentirsi subito dopo, come avvenne ad altri ragazzi.
Questo modo di agire ci permise di conoscerci molto in quel tempo, di stringere amicizie, alcune delle quali sono ancora attuali, ma allo stesso tempo ci permise di essere rispettati anche dagli altri, vecchi o burbe, per il nostro equilibrio, la nostra serenità, il nostro senso del rispetto nei confronti di tutti, compresi gli ultimi arrivati. Ovviamente non eravamo dei santi, le nostre arrabbiature le avevamo pure noi, ed anche qualche screzio, ma tutto si risolveva in pochi minuti, giusto il tempo di una spiegazione. Inoltre ci piaceva fare anche gli scherzi, che venivano svelati non appena il pesce abboccava. Il più bersagliato fra di noi era lo Squalo al quale, una volta, ne facemmo uno, forse troppo pesante. Fra gli altri mi ricordo quello che facemmo a Pepe, un ragazzo molto pauroso e frignone di Roma, e quello che feci io direttamente a Ciaffaraffà, di Siena, circa due mesi dopo il suo arrivo.