lunedì 26 settembre 2011

Quattro passi... con Ben - Cinquantunesima puntata

Per anni avevo aspettato il momento della fine della scuola ma, quando mi resi conto che era terminata veramente, mi rimase dentro una sensazione di malinconia e un po’ di nostalgia per quel periodo, nonostante non fosse andata a finire come avrei voluto.
A settembre trovai subito da lavorare come programmatore, ciò per cui avevo studiato, ma quell’esperienza si rivelò un disastro, non per i risultati, perché me la cavavo abbastanza bene, ma perché capii definitivamente che quel lavoro non mi piaceva. Pensai che era stato inutile andare a scuola per tre anni a Firenze.
Le persone che conobbi in quell’ambiente non mi piacevano per niente: erano malati di “onnipotenza”, sapevano tutto loro e chi capiva un po’ meno di loro, o impiegava più tempo, era un deficiente. Non era il mio modo di essere, né di pensare. A questo fatto unii anche quello strettamente monetario, perché lo stipendio, anche se minimo, non era per niente automatico. Tirai le somme e il risultato fu quello di andarmene. Pochi mesi erano bastati e quella fu la prima ed ultima esperienza come programmatore.
A primavera, verso aprile, entrai come aiuto magazziniere in un maglificio.
Quando arrivai non avevo le idee molto chiare su quali fossero le mie mansioni. Io credevo di dover fare i documenti e magari vedere come funzionava l’amministrazione di una ditta reale. E così mi presentai al cospetto di pochi uomini (soci) e tante donne (operaie) vestito elegantemente come se dovessi andare ad una festa: pantalone fresco di lana blu, camicia bianca, gilet blu e mocassino nero.
“Questo è Roberto” disse uno dei titolari presentandomi alle operaie, le quali mi scrutarono da capo a piedi con uno sguardo di quelli che volevano dire: “Ma dove crede di andare quello lì, vestito in quel modo!”
“Buongiorno a tutti” dissi un po’ imbarazzato.
“Benvenuto!” dissero alcune di loro.
“Aiuterà Bruno in magazzino e, se ci sarà bisogno, farà compagnia anche a voi” riprese il principale. “Buon lavoro, ti spiegheranno quello che devi fare.” E se ne tornò nel suo ufficio al piano superiore.
Io mi misi a disposizione e Bruno, il capo magazziniere, mi illustrò il lavoro da svolgere.
E lì capii che l’abbigliamento che indossavo non era quello adatto. Infatti cominciai a muovere sacchi di filato, scatoloni pieni di maglie e rocche di fettuccia di cotone e simili. Tutto doveva essere pesato per un inventario periodico.
Alla fine della giornata sembravo il “negativo” di come ero arrivato: i pantaloni e il gilet blu erano bianchi dalla polvere e la camicia bianca era diventata nera per lo sporco. Infine i mocassini mi avevano sbucciato tutto il tallone. Un dolore!
Quando tornai a casa ero veramente spossato, non ero preparato ad un lavoro di fatica fisica.
Nei giorni successivi, con l’abbigliamento adatto, andò decisamente meglio. Le donne mi insegnarono a piegare ed imbustare le maglie, attaccare le etichette ed altro ancora. Quello che mi piaceva di quella ditta era l’allegria che vi regnava: si dicevano battute a ripetizione, si ascoltava spesso la radio, si rideva e si scherzava lavorando. Impiegai veramente poco ad inserirmi. Bruno era un bravo ragazzo, ma mi metteva un po’ in soggezione per la sua elevata competenza sul lavoro, così ero molto contento quando mi diceva di andare a fare il “gallo” dalle donne.
Queste cercavano in tutti i modi di scalzarmi, soprettutto per farmi dire se ero fidanzzato. Io facevo sempre il misterioso, rimanevo sempre sul vago, e questo le incuriosiva ancora di più. Poi un giorno dissi loro che mi ero messo insieme ad una ragazza. Allora mi investirono di altre domande, di tutti i tipi, ma io tenni duro, mantenendo quel tanto di mistero che le faceva andare in bestia!

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