Il telefono suona. Una bambina deve essere portata all’ospedale pediatrico. Sappiamo che occorrerà quasi tutta la serata per quel viaggio. Arriviamo in quella casa e una piccola, splendida bambina, con pochi capelli biondi, si presenta ai nostri occhi. È così piccola! Poco dopo sapremo che ha poco più di un anno. L’accogliamo con un sorriso.
Prendiamo posto per partire; lei è in braccio a sua madre e, cullata dai movimenti del viaggio, si addormenterà dopo poche curve.
Dopo circa mezzora arriviamo all’ospedale, tanto imponente quanto accogliente. Scendiamo. Lei apre gli occhi, un leggero gemito, riconosce il posto e, in braccio alla madre, con la testa dritta anticipa i passi per raggiungere il reparto. Così si rivolge a sinistra se il corridoio da prendere è a sinistra, guarda a destra se quello da percorrere è sulla destra, fissa la porta giusta se è quella da aprire. Seguendo lei e sua madre raggiungiamo il reparto, il cui nome è di quelli che fanno tremare le gambe. La porta si apre e un infermiere la saluta con gioia. Lei protende le mani verso di lui, che la prende in braccio. Poi comincia a guardarsi intorno. Forse cerca qualcuno. Sì, è così.
“Sei già arrivata?”
Quella voce è della dottoressa che si sta avvicinando. Lei le fa un gran sorriso.
Quella voce è della dottoressa che si sta avvicinando. Lei le fa un gran sorriso.
Adesso ci sono tutti, si può entrare.
Noi invece riprendiamo la strada per rientrare in sede. Passeranno alcuni istanti prima che si riprenda a parlare. Guardando l’orologio calcoliamo che arriveremo quando il turno sta per scadere. Poi una domanda: “Cosa facciamo quando arriviamo, stacchiamo o rendiamo l’operativo per un po’?”
Ci guardiamo in faccia, poi: “Rendiamo l’operativo.”
Nella mente ancora quel sorriso.