Quella del teatro è stata un’esperienza che ha dell’incredibile.
Non
posso dire di essere un amante del teatro. Ho visto poche rappresentazioni e,
fra queste, ancora meno recitate da professionisti. Potrei affermare con
certezza di essere al di fuori di quel mondo.
Eppure
quando fui chiamato per occuparmi di questa attività, si parla comunque di
ambito parrocchiale, niente di più, mi ci buttai a capofitto.
Era
una bella sfida, perché mi sentivo come una persona che non ha mai giocato a calcio chiamata ad allenare una
squadra di calcio, per di più chiamata a
sostituire un allenatore che aveva vinto, con la sua squadra, tutto quello che
c’era da vincere.
Non
ricordo nemmeno più il motivo per cui fui interpellato, ma accettai di buon grado,
consapevole del fatto che ci sarebbero stati inevitabili confronti col passato,
ma anche che ogni partita fa storia a sé.
Fu
bello coinvolgere in quel progetto altre persone e, con quelle persone, vedere
crescere una vera squadra, di prova in prova, tanto che alla fine, a
prescindere dall’esito dello spettacolo, dispiaceva a tutti che quella prima
avventura fosse finita.
Quella
prima esperienza fu una vera e propria cavalcata. Scrivendo, insieme ad altri,
quello spettacolo, cercammo di portare quello che ognuno di noi aveva dentro.
Così rappresentammo prosa, poesia, canto e balli con una particolarità: non
c’erano primi attori e comparse, ma tutti erano protagonisti.
Provai
ogni sorta di emozione e, forse per la prima volta, mi accorsi di quanto fosse
bello cercare di mettere gli altri nella condizione di esprimersi al meglio,
piuttosto che cercare di essere al centro di una scena. Un lavoro proprio
dietro le quinte, con la scrittura, l’adattamento, l’organizzazione, la ricerca
di persone di buona volontà per mettere in piedi e costruire, anche materialmente,
tutto quello che c’era da fare.
Non mancarono certo le arrabbiature, perché, non essendo una compagnia teatrale, alle
prove mancava sempre qualcuno e, con l’andare del tempo, c’era il timore di non arrivare alla sera dello spettacolo sufficientemente preparati. Ma ho sempre confidato in quelle persone e ad alcune di loro non avrei mai rinunciato.La
prima arrabbiatura, però, me la procurarono i sempre ben informati che, prima
ancora che la sceneggiatura fosse finita, sapevano già di cosa si sarebbe
parlato.
Chiaramente
fu tutt’altra cosa rispetto a quello che avevano ipotizzato, ma lo seppero solo
dopo lo spettacolo, perché dall’alto della loro piccolezza, non vennero a
vederlo.
Rispetto
al passato riuscimmo a portare una ventata di novità.
Per
alcuni anni ho portato avanti altre rappresentazioni, alcune con adulti, altre
con i ragazzi, alcune con adulti e con ragazzi, curando regia e sceneggiatura, provando sempre grandi e intense
emozioni.
Due
crucci mi sono rimasti: il primo, la beffa, come la definii all’epoca, quando
dovevo scendere in scena con i ragazzi, ma un intervento chirurgico, proprio il
giorno prima dello spettacolo, mi impedì di partecipare. Forse dall’alto qualcuno voleva dirmi che non era quello il mio ruolo.
Il
secondo: aver scritto un adattamento rimasto nel cassetto.
E forse, anche questo, voleva essere un altro messaggio da interpretare.
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