Anche Paolo Rossi è morto.
Sì, anche, perché in questo 2020 tante persone se ne sono
andate, come sempre, più di sempre.
Covid o non Covid, ci hanno lasciato anche coloro che, in
qualche modo, ci hanno fatto emozionare, sognare, gioire. Basti pensare, solo
negli ultimi tempi, a Gigi Proietti, Stefano D’Orazio, Diego Armando Maradona,
e adesso Paolo Rossi.
Ero da solo in macchina, stavo andando a lavorare (sono fra quei
fortunati che ha potuto continuare a farlo) quando ho sentito alla radio la
notizia.
“Noooo, ma nooo!” Queste sono state le parole che ho detto,
pronunciate fino a quando la commozione mi ha impedito di parlare.
In fondo non lo conoscevo, l’ho visto di sfuggita lo scorso anno sul treno che da Milano mi riportava a casa, un paio di mesi prima che l’Italia chiudesse per coronavirus. Eppure la notizia mi ha fatto commuovere.
Quando Paolo Rossi divenne Pablito io avevo diciassette anni.
Mi aspettava un’estate da trascorrere sopra un libro per
riparare una materia e i suoi gol al mondiale me la resero più leggera. Non mi
rendevo conto di quanto fosse importante quella gioia collettiva in quella
stagione, solo dopo lo avrei capito.
Dopo la finale vinta contro la Germania, come gran parte degli
italiani, fui preso da una gioia incontenibile, e mi precipitai in strada
aspettando i cortei delle macchine con le bandiere, per esultare con qualche
sconosciuto assalito dalla stessa contentezza. Ricordo la voglia di poter
parlare di questo con il Borzo, il Giuba, il Maso, Luca e gli altri compagni di
classe dai quali, però, mi separavano quasi due mesi.
In quella estate, giocando a calcio sopra le mattonelle roventi di una pista da pattinaggio, se segnavi un gol di rapina si diceva di aver fatto un gol come Paolorossi, tutt’attaccato.
Le persone entrano a far parte della nostra vita, conosciute o meno conosciute, a volte anche per una sola emozione, un solo ricordo che ci regalano. E quando le abbiamo dentro restano con noi, sempre.
Non muoiono mai, proprio come i sogni.
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