Circa dodici mesi fa, mentre ci scambiavamo gli
auguri, nessuno avrebbe immaginato che il 2020 andasse nel modo in cui è
andato.
Un anno di cui è stato detto di tutto e anche di più, in tutte le
salse. Da alcuni giorni, però, c’è una speranza chiamata
vaccino e proprio da questa vorrei partire per fare una breve riflessione su
quello che per me ha rappresentato questo 2020 e per vedere se c’è modo di
salvare qualcosa.
A marzo ci fu la prima chiusura, che ci fece
riscoprire alcuni aspetti della nostra vita che sembravano scomparsi.
Ritrovammo una inaspettata umanità, l’altro cominciò ad assumere forma e ad
avere un nome. Ci sentivamo soli, avevamo paura, ma in quella situazione ci
aggrappammo alla forza e all’energia che ci proveniva dagli altri che, talvolta
inconsapevoli, si stavano prendendo cura di noi. Non sto parlando dei medici,
degli infermieri e di tutte quelle persone invisibili che stavano tirando
avanti il paese, ma di quelli che, facendo cose forse mai fatte prima, ci
strappavano un sorriso oppure una lacrima, pensando sempre che un giorno
sarebbe andato tutto bene.
A marzo ho cantato per l’ultima volta in pubblico
con i miei due amici.
Abbiamo ritrovato la nostra interiorità stando
fra le mura di casa e il tempo per farci riscoprire ciò che
avevamo nascosto. Allora ci siamo riscoperti coltivatori, giardinieri,
falegnami, hobbisti, capaci di fare, costruire, creare piccole cose che in quel
momento ci sono sembrate grandissime.
È stata la primavera in cui ho ritrovato la
voglia di scrivere e di farlo con costanza.
Abbiamo imparato a vivere la nostra spiritualità
in casa, seguendo le dirette in tv o suoi social. Non dimenticherò mai quell’immagine
di Papa Francesco, un gigante davanti ad una piazza vuota in cui era confluito
il mondo intero, e le parole tratte dalla sua Enciclica, che più avanti recita
così: “L’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri: la vita
non è tempo che passa, ma tempo di incontro.”
Abbiamo scoperto di essere fragili e non
onnipotenti, ma anche che siamo migliori di
quanto pensavamo di essere, pur essendo troppo timidi per ammetterlo a noi stessi.
Questo il mio augurio per il prossimo anno: che
possiamo prendere consapevolezza che siamo migliori di quanto vogliamo far
vedere.
È vero, ci portiamo dietro ferite, lutti e tutte
le altre difficoltà incontrate in questo 2020.
Ci sentiamo rotti come un paio di scarponi che
abbiamo cercato di riparare in tutti i modi, perché il desiderio è quello di non fermarci, ma di
continuare il cammino, proseguendo oltre quel 31 dicembre che ci immette nel
2021.