domenica 28 settembre 2025

Racconto tragicomico della mia carriera da scrittore

Questo è il racconto tragicomico della mia carriera da scrittore 
(per passione, per ostinazione e, soprattutto, per me stesso)

SETTE COPIE VENDUTE

Mi chiamo Scriverio Scrivassai, anche se per molti sono Scrivassi, e sono uno scrittore per passione.

La mia vera professione, un tempo nobile, è stata rovinata da un noto personaggio cinematografico degli anni settanta e forse anche per questo ho tentato un’altra strada.

Non sono uno scrittore famoso. Nemmeno uno emergente.
Sono uno di quegli autori che galleggiano nel bizzarro limbo del “ti leggo appena ho un attimo”, dove i “momenti liberi” non arrivano mai, e i lettori, soprattutto quelli più vicini, si dileguano con la velocità di un link dimenticato.

La mia carriera letteraria è iniziata con una tastiera di un pc, così alternativo che non ricordo nemmeno la marca.

Se avessi avuto una penna Bic blu, un quaderno a righe di seconda mano, sarebbe stato tutto molto più romantico, ma probabilmente non sarei riuscito a leggere quello che scrivevo.

Iniziai con una ferrea convinzione in testa: scrivere mi avrebbe reso finalmente leggibile.
Ma ero giovane o poco più. Mi verrebbe da dire che ero già avviato sulla strada dell’adultità.

Ero ottimista e avevo alcuni amici che dicevano frasi come:

«Mi adopero subito per trovarlo.»

«Tu scrivi? Ma dai, che figata! Quando lo pubblichi me lo mandi? Lo leggo sicuro!»
Sono passati ventuno anni.
Sto ancora aspettando.

Il mio primo libro si chiamava… non ha importanza come si chiamava, il riferimento lo capirei soltanto io, ma aveva un titolo onesto, diretto, di due parole.

Arrivo, dunque, subito all’ultimo.

Una raccolta di storie brevi, ironiche, malinconiche, con protagonisti come un uomo che parlava solo con le piante e una donna che viveva nei messaggi vocali non inviati.

Dopo l’entusiasmo dell’uscita e tutte le aspettative del caso, sono state vendute sette copie.
Sette, avete capito bene.
In numeri: 7.
In lettere: sette.
In lettere maiuscole: SETTE.

Di queste, una l’ho comprata io, per controllare che la copertina fosse centrata e la stampa fosse venuta bene.
Un’altra l’ho presa per mio padre, perché gli ho sempre regalato una copia di tutti i libri che ho scritto. Dubito che li abbia letti, ma a lui interessa tenerli sullo scaffale per mostrarli ai parenti quando vanno a trovarlo. Purtroppo i parenti non vanno a trovarlo e quei libri sono pieni di polvere che verrebbe voglia di starnutire a guardarli. In ogni caso, mio padre è diventato il mio fan più attivo a sua insaputa, ed il collezionista più incallito delle mie opere: le possiede tutte. E credo sia l’unico, se si esclude il sottoscritto.

Ops, ho dimenticato di dire che mio padre è ultranovantenne e, anche volendo, adesso non è più in grado di leggere.

Un’altra l’ho comprata per sua sorella, di qualche anno più giovane di lui. La zia ha detto che l’ha appoggiata sul comodino accanto a un libro di Padre Pio e una cornice vuota in attesa di una foto ben precisa: l’anteprima di quella che vorrebbe che fosse messa sulla tomba, perché, dice, vuole vedere se è venuta bene.
Dice che la leggerà “quando avrà finito la biografia di Albano”. Solo che Albano ha una vita lunga quasi quanto la sua.

La quarta copia è stata acquistata da un mio vecchio collega, ora in pensione, che si è mostrato subito entusiasta. Dopo averla sfogliata mi ha mandato un messaggino su Whatsapp, dicendo:
«Molto bella la carta. Sa di cultura.»
Non ha letto nemmeno l’indice, ma ha fatto una storia su Instagram con l’hashtag #supportolacultura.
Mi ha taggato con il nome sbagliato.

La quinta copia è stata ordinata da uno sconosciuto su Amazon. Non ho mai scoperto chi fosse. Ho fantasticato per mesi. L’ho chiamato “Lettore Ignoto”.
Lettore Ignoto, se sei là fuori: scrivimi. Ti mando il seguito, anche se non l’ho scritto.

Le restanti due copie sono sparite nel nulla.
Una forse è rimasta nel carrello virtuale di qualcuno, dove giace accanto a un adattatore USB e una candela profumata.
L’altra... boh. Magari l’ha presa un algoritmo, per pietà.

L’editore mi ha chiamato a proposito dei diritti d’autore che ho provato a richiedere, solo per curiosità. Mi ha risposto che fare il bonifico è troppo dispendioso, poiché le spese superano l’importo da bonificare. Così mi ha proposto di passare da lui in settimana, che mi paga dandomi un libro di un altro a mia scelta, che non ha venduto, ma che devo aggiungere qualche euro per raggiungere il prezzo di copertina.

Ma torniamo a me. E ai miei lettori mancati.

Quello che non ti dicono quando inizi a scrivere è che la vera sfida non è trovare un editore, ma trovare un parente, un amico, o un conoscente che legga il tuo libro senza considerarlo un favore personale.

C’è mia cugina Marilena, per esempio. L’ho vista in vacanza tre volte con in mano “I pilastri della terra”. Mille pagine e oltre, che legge come si legge il bugiardino di un antidolorifico.
Quando le ho regalato un mio libro (102 pagine, con interlinea generosa), mi ha sorriso e ha detto:
«Che bello! Lo porto in spiaggia.»
Due anni dopo, è ancora lì. Intonso.
Oppure il mio amico Athosse (sarebbe Athos, ma con la “e” finale suona meglio). A scanso di equivoci, quel nome va pronunciato con l’accento sulla “A”, e non sulla “O”, altrimenti sembrerebbe un’espressione dialettale centro-meridionale, e dopo averlo detto bisognerebbe prendere un cucchiaio di sciroppo. Athosse l’ho conosciuto in palestra, dove si recava soltanto per fare la doccia. È lui che mi ha insegnato che la fatica non è tutto e che, alla soglia del sudore, bisogna andare a lavarsi.

Dopo aver ricevuto la copia omaggio della mia ultima raccolta di storie, mi ha scritto:

"Ehi, Bro, solo il fatto che tu l'abbia scritto è già tanto. Leggerlo è un altro discorso."

Già. È un altro discorso. Uno che non vuole fare.

Poi ci sono quelli che ti fanno domande vaghe per far finta di averlo letto:
«Bello il finale! Forte, eh? Quella svolta lì… wow!»
«Quale svolta?»
«Eh… quando cambia tutto, no?»
«Tipo a pagina 127?»
«Esatto!»
Detto tra noi, pagina 127 è inesistente, perché il libro finisce prima.

Ah, com’erano belli i tempi in cui regalavo i miei libri. Me li chiedevano in tanti e, forse, qualcuno li avrà anche letti.

Eppure continuo a scrivere. Ogni giorno.
Scrivo anche quando nessuno legge, anche quando mi chiedo se non farei meglio a diventare fabbricante di cucchiai o venditore di piante grasse con disturbi alimentari.
Scrivo perché altrimenti mi verrebbe da parlare da solo. E scrivere, almeno, è più elegante, anche se poi non c’è tanta differenza con il parlare da solo.

Una volta ho pensato di organizzare una presentazione del libro.
Scelsi una libreria carina, con luci calde e poltrone ergonomicamente scorrette.
Stampai locandine, mandai inviti, perfino messaggi personalizzati:

“Ci tengo molto che tu venga.”
Risposero in tre.
Tutti con la stessa frase:
“Che peccato, quel giorno ho un battesimo.”
Il battesimo in questione non è mai avvenuto. Era una copertura.

Sull’invito avrei voluto aggiungere “Anche solo per farmi compagnia”, ma poi mi è sembrato troppo supplichevole e ho rinunciato. E meno male che non l’ho fatto. Visto il risultato, ho risparmiato un po’ di toner e il pianeta mi ha pure ringraziato.

Leggere qualcosa scritto da uno che conosci sembra diventato un crimine letterario.

Perché — e qui arriviamo al cuore del dramma — nessuno vuole leggere qualcosa scritto da chi conosce davvero.
Perché leggere significa esporsi, e il rischio è alto: potresti dover ammettere che è bello. O, peggio, che non ti piace.
E allora si finge. Si posticipa. Si cambia discorso.
Come quando dici “sì sì, ci vediamo presto”, sapendo che l’altro abita in Islanda e tu non hai nemmeno la carta d’identità valida per l’espatrio.

La verità?
Scrivere è una forma di testardaggine affettiva.
È continuare a mandare messaggi senza risposta, sperando che prima o poi qualcuno apra la notifica.

Certo, ci sono momenti in cui mi chiedo: “Ma chi me lo fa fare?”
Poi mi siedo, apro il file, scrivo un dialogo tra un frigorifero depresso e una donna che colleziona ricordi mai avuti.
E rido. E mi sento bene. E penso che, forse, alla fine, è questo che conta.

Scrivere, anche se nessuno ti legge, o magari... scrivere proprio perché nessuno ti legge.

Perché a volte l’unico vero lettore sei tu.
E va bene così.

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