Non ricordo bene come decisi di andare a quel convegno.
La materia era di per sé
inutile per il mio lavoro e per i miei interessi, ma quel titolo, così
accattivante, fu per me un richiamo irresistibile. Andai sul sito, feci
l’iscrizione e, sempre online, comprai il biglietto del treno per andarci.
Arrivato sul posto,
all’interno di una fortezza medievale nel centro storico della città, cercai e,
per fortuna, trovai l’Aula Magna. Andai a sedermi in seconda fila. C’erano
alcune persone arrivate prima di me. Mi guardai attorno per cercare di capire
se ero nel posto giusto, perché mi sembrava che ci fosse poca gente. L’aula era
buia, più che buia era in penombra, insomma non c’era tanta luce. Forse era
presto e ancora dovevano accendere tutte le lampade.
A poco a poco le poltrone
cominciarono a riempirsi e nel giro di una decina di minuti il convegno ebbe
inizio.
«Buongiorno e benvenuti al
convegno “Lo sport, metafora della vita”. Oggi parleremo…»
E lì ebbe inizio il bla bla
bla della giornata. Tutti discorsi filosofici che presto mi fecero assopire,
gli occhi mi si appesantirono ma non si chiusero, pertanto ero sveglio, ma non
abbastanza da rimanere concentrato sull’argomento. Così mi distrassi e
cominciai a pensare ai fatti miei, rimproverandomi per aver speso tutti quei
soldi per una noia così grande.
Stavo sul punto di
addormentarmi, questa volta per davvero, quando improvvisamente fui svegliato
da una voce che mi sembrò particolarmente vicina alle mie orecchie. Infatti
aprendo gli occhi e sollevandoli verso l’alto, vidi sopra di me il volto del
relatore che evidentemente faceva i suoi bei discorsi camminando su e giù per
la sala, col il suo minuscolo microfono attaccato al bavero della giacca.
«Pertanto, alla luce di quanto
fin qui esposto, che cosa potremmo rispondere se ci venisse fatta la domanda: “Chi
sei tu?”»
E rimase lì, pietrificato, con
un ghigno diabolico a guardarmi coi suoi occhi sbarrati e nervati di sangue, come
se avesse deciso di non muoversi prima di aver ottenuto da me una risposta.
Mi tirai su dalla poltrona
nella quale ero sprofondato nel goffo tentativo di darmi un contegno e mettermi
composto.
Quella domanda rivolta a
bruciapelo mi aveva colto di sorpresa, negandomi la prontezza di rispondere
subito. Dovetti pensarci un po’. Un attimo, un frangente durante il quale la
mia mente ripercorse la mia vita. Come direbbero quelli che hanno visto la
morte in faccia, la vita mi è passata davanti agli occhi. Beh, non tutta, gran
parte.
Non c’è stato molto da
ripercorrere, in realtà, perché la mia vita è sempre stata un po’ così… così…
insomma, se fosse un film sarebbe un cortometraggio, se fosse un menù avrebbe
una portata, forse due, se fosse… meglio chiuderla qui, altrimenti rischio di
deprimervi.
Istintivamente sono andato con
la memoria ai tempi in cui ero bambino. Per capire chi sono, dovevo partire un
po’ da lontano, dalla preistoria e vedere chi ero.
Così ho visto un bambino, né
alto né basso, né biondo né moro, né grasso né magro, goffo per alcune cose,
abile per altre.
Un bambino con la voglia di
giocare, ma senza sapere con chi farlo, che si tuffava nello studio per cercare
di capire di più il mondo. A vedere come stanno andando le cose, verrebbe da
dire che la partita era persa in partenza.
A proposito di partite, in questo caso di calcio, rimarrà indimenticabile quella che avrei dovuto giocare e che non ho mai giocato.
Era un sabato pomeriggio e
aiutatemi voi a dire quanto pioveva. La mattinata era stata altrettanto
piovosa. Anche in settimana la pioggia era caduta, ma di brutto.
Vedendo tutta quell’acqua non
andai al campo. Non avevo giocato mai fino a quel momento, figuriamoci se
potevo giocare in quel campo, io, abbastanza piccolo e leggero da non stare
nemmeno in piedi.
Invece qualche giorno dopo,
venni a sapere che nell’ultimo allenamento, in un campo dove l’erba si
nascondeva sotto l’acqua per non farsi calpestare, avevo convinto l’allenatore
che anch’io ero in grado di giocare in quella squadra di fenomeni.
Quando lo venni a sapere avevo
già deciso che non avrei continuato.
La mia carriera calcistica finì
nell’ultimo allenamento, con un goal e una traversa.
Arrivò il momento del tennis
quando, in paese, fu organizzato un
torneo.
Si giocava su una pista di pattinaggio, con il
pavimento fatto di mattonelle e per questo duro come il cemento.
Io mi ero iscritto sia al singolare sia al
doppio.
Nel singolare passai alcuni turni, ma fui
eliminato nei quarti. Trovai un avversario che mi faceva correre da una parte
all’altra del campo ed io, avendo le gambe più corte che lunghe, dopo un po’
schiantai dalla fatica.
Nel doppio invece, in coppia con Gianluca,
facemmo un torneo bellissimo.
Superammo i primi turni senza problemi ed
approdammo in semifinale, dove ci aspettava la coppia in cui militava mio
fratello. Per me era una specie di derby. Per i valori espressi fino quel
momento, quella era considerata la vera finale.
Dopo una partita avvincente e spettacolare, io e
Gianluca vincemmo ed andammo in finale, da giocare contro una coppia contro la
quale avevamo sempre vinto in precedenza.
La partita iniziò nel migliore dei modi e
vincemmo senza problemi il primo set: 6-2.
Sembrava tutto facile. Poi cominciammo a
sbagliare le cose più semplici.
Presto mi trovai a combattere da solo contro tre,
perché il mio compagno era andato in piena crisi. Correvo anche per lui e
cominciai ad accusare la stanchezza, oltre a un certo nervosismo. Perdemmo il
secondo set: 7 – 5.
Il terzo set fu equilibrato fino a quando mi
ressero le gambe, poi capitolammo. Gianluca era in campo fisicamente, ma non
mentalmente e non combinava niente di buono; era andato completamente in
bambola e tutti i miei tentativi per scuoterlo furono vani.
Perdemmo malamente quella partita. Eravamo più
bravi degli altri, ma non riuscimmo a dimostrarlo e a vincere. Quella sconfitta
bruciò così tanto che non riuscii a dormire per alcune notti.
Vogliamo parlare dell’atletica leggera?
Giochi della gioventù dell’anno millenovecento…
beh, di parecchi anni fa, non tantissimi, ma neanche pochi. Un ricordo nitido,
sembra ieri.
Per la prima volta entravo in uno stadio ed era
quello della mia città. Poco importava se le tribune erano vuote. Eravamo in
orario mattutino in cui la gente lavora, e poi figuriamoci se qualcuno va a
vedere degli studenti che gareggiano fra loro.
Gli allenamenti dicevano che avrei potuto correre
i 100 metri, ma ero sempre arrivato secondo, dietro ad un compagno di classe.
Non avevo chances in quella gara alla quale, oltretutto, erano iscritti molti
atleti.
Per la squadra sarebbe stato più utile se avessi
partecipato alla gara di salto in lungo. Negli allenamenti ero sempre arrivato
secondo, dietro al compagno di cui sopra, ma gli iscritti erano solo quattro.
Me la sarei giocata per il secondo posto.
Iniziai il classico riscaldamento: un po’ di
esercizi, qualche corsa, qualche allungo, insomma le solite cose. Poi feci il
primo salto di prova. Dopo la rincorsa, però, nel momento di spiccare il volo,
sentii una fitta dietro a una coscia ed un dolore lancinante: e strappo fu! La
gara non era ancora iniziata ed era già compromessa. Tuttavia non volli
rinunciare ad entrare in classifica, così quando la gara ebbe inizio effettuai
un salto, alla meno peggio, raggiungendo la misura di 3,80 metri. Son
soddisfazioni!
Quando mi chiesero com’era andata la gara, mi
limitai a dire che ero arrivato quarto.
Dopo un lieve stupore si complimentarono con me.
Omisi di dire che eravamo in quattro.
Non avevo detto tutta la verità, ma non avevo
detto nemmeno una bugia.
Basket e volley? Che dite, ci
proviamo, vi va?
Voi capirete bene che essendo
né alto né basso non avevo molte chances. Eppure ero un tipo eclettico,
versatile, non ero campione in niente ma mi difendevo bene dappertutto. Nel
primo arrivai in doppia cifra, niente di più, nel secondo rimarrà
indimenticabile una semifinale giocata durante un torneo scolastico pochi mesi
prima degli esami di maturità.
Eravamo in quinta ed avevamo
una bella squadra.
Di partita in partita il
gruppo cresceva e vincevamo divertendoci.
Arrivammo alla finale dopo una bella cavalcata,
nonostante i miei pessimi servizi che finivano sempre nel solito posto del
campo avversario facendo particolarmente irritare i miei compagni. La
semifinale fu tirata, incerta fino all’ultimo punto. E quello lo decisi io,
con il mio muro sulla schiacciata effettuata da
un atleta della squadra avversaria.
Fu davvero una cosa incredibile: il più piccolo
in campo che va a stoppare una schiacciata sotto rete. Se lo racconto, ancora
c’è qualcuno che non ci crede.
Sembravo in uno di quei cartoni animati
giapponesi, dove si vedono dei balzi esagerati senza mai vedere l’atterraggio e
dove le palle, colpite con violenza, diventano ovali fino ad appiattirsi come
dei dischi volanti prima di toccare terra e rilasciare scintille come se
fossero dei fuochi artificiali.
Quando la palla partì dalle mani dell’avversario,
io ero lassù ad aspettarla, come se me lo sentissi, pronto a ricacciarla
indietro. La palla atterrò nel campo altrui e per noi fu la vittoria.
Fui sommerso dagli abbracci. Fra le varie urla di
giubilo udii un “Grande Lillipuz!”, ma quello che mi soprese di più fu il
calore dimostrato dalle compagne di classe, che non mi avevano mai filato fino
a quel momento. Diamine, ero diventato un playboy tutto d’un tratto. Roba da
montarsi la testa. In quel turbinio di emozioni, in quei frangenti così caotici
e confusi, un bacio arrivò sulla mia guancia. Non ho mai saputo chi me lo
avesse dato, perciò vorrei continuare a credere che fosse arrivato da quella
ragazza che mi piaceva particolarmente.
Detto questo, volete veramente sapere com’è andata a finire la finale o volete rimanere con il dubbio di una certezza?
Ho provato anche con il rugby. Dite la verità:
questa non ve l’aspettavate.
Vi è mai capitato di non saper dire di no ad una
richiesta? Ecco, quella volta andò in quel modo.
Un amico cercò in tutti i modi di inserirmi in
quel mondo. Io non sapevo da che parte rifarmi in quello sport. Non lo
conoscevo e, forse proprio per questo, non mi piaceva più di tanto.
Ma lui me lo descrisse talmente bene e con un
entusiasmo tale da farmelo sembrare il re di tutte le discipline sportive:
agonismo, rispetto per l’avversario, intelligenza tattica, e così via. Insomma,
mi convinse e così andai a fare un paio di allenamenti con la squadra della
scuola. A onor del vero, a tentare di fare un paio di allenamenti.
Mi fermo un attimo per ribadire, qualora ce ne
fosse bisogno, che il mio fisico non è mai stato appropriato per quello sport;
infatti, anche se massiccio, sono pur sempre un tappo in confronto ai giganti
che lo praticano, ma il mio amico vedeva nella mia rapidità e nella mia velocità
delle armi eccezionali. Lui mi vedeva ricevere la palla fra le mani sulla
fascia e poi, con corsa veloce, arrivare in meta con gli avversari incapaci di starmi
dietro ed acchiapparmi.
Mi ritrovai al primo allenamento: corsa,
riscaldamento, ginnastica, scatti, tutte queste belle cose, poi... partitella.
E lì cominciarono i dolori, in tutti i sensi. Presi tante di quelle botte,
senza riuscire a fare niente, che subito capii che non era banda. Non conoscevo
le regole, non sapevo gli schemi, avevo paura di farmi male, insomma, un vero
disastro. E tutto questo senza toccare palla!
Al secondo allenamento feci tutto, esclusa la
partitella. A quella preferii la doccia, con la scusa che dovevo in tutti i
modi riprendere un certo treno per tornare a casa.
Diventando adulto ho dovuto adattarmi con altri
sport, cercando quelli dove i campi diventavano un po’ più piccoli e non
sembravano più, ai miei occhi, delle praterie interminabili.
Così arrivò il momento del calcetto, quello che
si gioca in cinque.
Cominciai con l’obbiettivo di perdere alcuni chili
di troppo, presi per il piacere di mangiare. La mia pancetta non era enorme, ma
era comunque ben visibile.
Non ero più uno studente ma un lavoratore,
esperto ma non troppo. Tutto questo giro di parole per non dire che ero
arrivato in quell’età in cui gli sportivi, quelli veri, appendono le scarpe al
chiodo.
Bravo bischero, tu hai fatto di tutto per non
dirlo e alla fine tu l’hai detto!
Mettemmo su una squadra e facemmo un campionato
provinciale di un’associazione cosiddetta “dei preti”. Io segnai due goal in quel
torneo, entrambi nella seconda giornata. In quella stessa partita la mia
caviglia si aggrovigliò su se stessa, costringendomi ad uno stop di circa tre
mesi. Poi ricominciai, insieme alla paura di farmi nuovamente male. Ormai avevo
una famiglia e non potevo permettermi di bloccarmi per una partita di calcetto.
Non ritrovai più continuità e, relegato in
panchina, giocando pochi minuti a partita, non riuscii più a giocare bene, né a
segnare altri goal. La tristezza fece di me un sol boccone.
Arrivammo terzi e questo ci permise di qualificarci
per il campionato regionale dove arrivammo in finale, in preparazione della
quale partecipammo ad un torneo con due squadre: quella composta dai titolari e
quella composta dalle riserve. Spiegando agli organizzatori il motivo per il
quale eravamo lì, chiedemmo, ed ottenemmo, di essere inseriti in gironi
diversi. Fummo accontentati.
Io, neanche a dirlo, facevo parte della quadra
delle riserve. Giocai bene in quel torneo, facendo pure qualche goal.
Le nostre due squadre vinsero i rispettivi gironi
e si ritrovarono in finale.
Per sapere chi vinse quella partita bisogna non
avere fretta perché c’è da spiegare bene come si svolsero le cose. Dunque: i
tempi regolamentari si chiusero in parità. I tempi supplementari si chiusero in
parità. Andammo ai rigori e, dopo che tutti i giocatori avevano tirato (io
trasformai il mio rigore), il risultato era ancora in parità. A quel punto
chiedemmo all’arbitro di fare un altro tempo supplementare con la regola del golden
goal, cioè chi segna per primo vince e la partita termina lì.
Quello inizialmente disse: «Questa mi piace, le
regole volete farle voi?»
Poi, spiegandogli che eravamo la stessa squadra, ma
divisa in due per l’occasione, eccetera, eccetera, acconsentì.
Ebbene, a pochi secondi dalla fine del tempo noi
colpimmo il palo così forte che la palla tornò nel nostro campo dove il loro
attaccante, rimasto lì fermo con le mani sui fianchi in attesa del fischio
finale, con sua grande sorpresa se la ritrovò tra i piedi, appena in tempo per
girarsi e calciare. La palla finì in rete mentre l’arbitro stava fischiando la
fine del tempo, che sancì anche la fine della partita.
E così, anche quella volta, arrivai vicino alla
vittoria.
Probabilmente vi starete domandando se sia mai
riuscito a vincere qualcosa in vita mia. Ma poi, è così importante saperlo?
Comunque, visto che mi ci fate pensare, tra le tante sconfitte credo di aver
ottenuto anche qualche bella vittoria, al di là dello sport, come ad esempio...
Ma questa è un’altra storia, meglio lasciarla per
un altro convegno, rischierei di andare fuori tema; oltretutto non ho ancora
risposto al relatore che è ancora lì che continua a guardarmi in modo strano.
«Alla luce della mia esperienza, dopo aver
ascoltato le sue parole, risponderei: io sono… quasi!»
Questo è quello che avrei voluto dirgli, ma le
parole che uscirono dalla mia bocca furono:
«Non ho capito bene la domanda. Per cortesia, può ripeterla?»
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