Ogni giorno che passava faceva aumentare la voglia di vedere i miei familiari. Sapevo bene che non sarebbero venuti al giuramento, perché il viaggio era lungo e strapazzante, e poi quello era stato l’accordo prima di partire. Tuttavia alcuni giorni prima dell’avvenimento cercai di convincerli a venire.
Ricordo che la sera che telefonai, i cellulari all’epoca non c’erano, cercai un bar con il telefono a scatti e non a gettoni, per non correre il rischio di rimanere a mezzo con il discorso. Ma era troppo tardi ed era impossibile organizzare il loro lavoro per partire per Chieti con così poco tempo di preavviso.
Era ciò che già sapevo, ma ci rimasi male ugualmente.
Così decisi che quel giorno sarei rimasto in caserma, in servizio volontario, per favorire la libera uscita di un qualsiasi altro collega sconosciuto che avesse avuto i propri cari al seguito.
“Bene!” urlò il sottufficiale di giornata. “Adesso ho bisogno di alcuni volontari per i servizi del giorno del giuramento. Vorrei che coloro che non riceveranno visite si facciano avanti e alzino la mano.”
La alzammo in pochi e ci contò.
Nel frattempo Pilone mi dette una botta sulla schiena da dietro e mi urlò sottovoce nell’orecchio:
“Ma che fai, sei scemo? Forse pensi che tutti quelli che non hanno alzato la mano c’hanno i genitori, c’hanno?”
E proseguì: “Tu esci con me e con i miei genitori, non mi fare incazzare, non mi fare!”
In pochi secondi capii che aveva ragione lui; al successivo contrappello dei volontari ne mancò uno e, nonostante le richieste insistenti del sottufficiale, non fu trovato.
Il giorno del giuramento fummo svegliati molto presto in modo da essere pronti e perfetti in ogni piccolo particolare. La cerimonia si svolse sotto un sole rovente e tutto andò per il meglio. I complimenti si sprecarono, per tutti. E fu una piccola soddisfazione dopo tanti giorni di allenamenti.
Poi ci andammo a cambiare per la libera uscita. Pilone uscì in divisa e come promesso, mi fece uscire insieme a lui e ai suoi genitori, mescolati insieme a tutte le altre persone che, a centinaia, affollavano la caserma e che erano intenti ad uscire.
Ma appena fuori li fermai un attimo e dissi loro:
“Pilone, ti ringrazio e ringrazio anche voi per avermi invitato a trascorrere questa giornata in vostra compagnia, ma oggi è la vostra giornata e dovete stare insieme, dopo un mese, senza estranei fra i piedi.”
Pilone insistette: “Dai Robbé, vieni con noi.”
“Ti ringrazio, davvero, ma non preoccupatevi, io andrò a Pescara a farmi un bel bagno. Buona giornata a tutti quanti.”
E così me ne andai a Pescara, in perfetta solitudine.
Presi il mio autobus, passeggiai per Pescara, presi il sole sulla spiaggia, feci il bagno e pensai per tutto il giorno a tutte le giornate che non avevo trascorso insieme ai miei genitori, alla partita di pallone alla quale non avevano potuto assistere, alla domenica che non avevamo potuto trascorrere insieme, alla gita che non avevamo potuto fare, alla recita che non poterono vedere, alle festività che non avevamo potuto festeggiare insieme, a tutte le altre volte in cui avevo dovuto dimostrare un’età più grande di quella che in realtà avevo, poiché avrei dovuto agire senza la loro presenza.
E tutto questo per il loro particolare lavoro che li teneva impegnati dall’alba fino a mezzanotte, fatto di sacrifici, frustrazioni, fatiche e rinunce, povero di soddisfazioni, ma ugualmente fatto con impegno e dedizione, per permettere ai figli di avere una vita diversa dalla loro, un futuro migliore.
La sera, al rientro, ognuno cercò di raccontare come aveva trascorso la giornata insieme alla famiglia e alle fidanzate. Io stavo a sentire e, al dolce suono di quelle storie altrui che avrei voluto fare mie, mi addormentai.
Finalmente il Car stava per finire ed arrivò il giorno del trasferimento: domenica 28 luglio.
Ricordo quel giorno anche perché dovetti rinunciare al matrimonio di una mia cugina, la più cara di allora e di oggi.
Sul piazzale fummo divisi in base alle destinazioni.
Dei miei amici nessuno era destinato ad andare a Montichiari.
Con Pilone, il Colonnello, Alberto e Roberto, ci abbracciammo un po’ commossi, perché sapevamo benissimo che non ci saremmo più visti né sentiti. Ci augurammo buona fortuna, poi ognuno si diresse verso il suo nuovo gruppo.
Il mio era composto da poche persone, una dozzina, al massimo quindici.
Cominciammo a parlare e notai in uno di essi un accento familiare.
“Sei toscano?” gli chiesi.
“Di Pistoia” mi rispose.
“Anch’io. Ciao, sono Roberto!”
“Ciao, sono Federico!”
Nacque così, nel piazzale di quella caserma, un’amicizia che ancora oggi continua.
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